22 Gennaio 2020

Se analizziamo i testi di Franco Battiato ci ritroviamo classicisti a tutto spiano… Ovvero: sui rapporti tra poesia e canzone

Non sono suggestioni.  Se analizziamo i testi di Franco Battiato ci ritroviamo classicisti a tutto spiano: Delenda Carthago non solo è la ripresentazione musicale della nota orazione catoniana all’alba della terza guerra punica ma è anche una sua rimodulazione di medesimi sintagmi storiografici (cfr. conferendis pecuniis con Tac. Ann. XV, 45: interea conferendis pecuniis pervastata Italia). Le contiguità non toccano casi isolatissimi: il mito di Odisseo da Omero a Guccini insieme a quello di Orfeo ed Euridice da Ovidio a Carmen Consoli hanno lo stesso pubblico tra ieri ed oggi in un racconto vincente che sfama da sempre.

Dunque, se è vero che è difficile, in alcuni casi, documentare una volontaria trasmissione diretta di luoghi comuni, è altrettanto evidente che, volente o nolente, la tradizione che ci ha preceduto abbia lasciato tracce di sé in un ventaglio di idee e modi di dire che ad essa comunque riportano, come ad evidenziare un debito di riconoscenza che, ad un livello più alto, platonico, potremmo aggiungere, è ri-conoscere sul piano cognitivo.  Questione di magnetismo genetico, allora! Si sa poi che tante nostre espressioni camminano senza il nome dei loro autori: non per questo il retaggio culturale è meno forte!

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C’è un autore italiano, Francesco Melosio (Città della Pieve, 1609-1670), che può entrare a pieno titolo nel vivo di questa modesta discussione: un autore minore del panorama storico italiano che non è passato inosservato ai suoi tempi, malgrado le informazioni su di lui siano piuttosto digiune.  Delle notizie di cui siamo in possesso, fu colto umanista e profondo conoscitore delle leggi: entrò al servizio dei potenti non solo a Roma, ma anche a Venezia ed a Torino; del resto, era prevedibile questo mecenatismo, a mo’ d’invarianza per traslazione dei tempi! Attraverso le poesie denunciò, pur con apparente amenità, il profondo malessere del tempo. Tra le sue opere si ricordano: Discorsi accademici, Orione, Sidonio e Dorische e Poesie e prose. Un sonetto, per cominciare, sembra il background culturale di qualche canzone di un quarantennio fa. «Donne con carte a mazzo andar potete / mentre alle carte voi vi assomigliate, / che son di stracci, e voi in stracci andate, / elle dipinte, e voi pitture siete. / Voi le spade negl’occhi ogn’or tenete, / i danari di voi son chiome aurate, / i bastoni ne’piedi ognor portate, / e per coppe nel seno i sassi havete. / La fierezza è di voi cavallo fiero, / per re io stimo ognor vostra beltade, / ed ha per fante l’huom vostro pensiero. / Chi serve a voi ben tosto in asso cade, / e per parer di carte un mazzo intiero, / portate in prospettiva il due di spade»; per la cronaca è il componimento “Si paragonano le donne a un mazzo di carte”, quasi la versione femminile del Re di denari di Nada (1972): «Non cerco un re di denari / io cerco un fante di cuori / sai la mia reggia dov’è / sotto le stelle con te. / A chi mi offre denari / io gli rispondo picche / a chi mi offre dei fiori / tutto il mio cuore darò. / La vita è un gioco / mischia le carte / ride chi vince / chi perde piange / ma la partita / è solo una / nella vita ci vuole fortuna / una rivincita non ci sarà. / Addio bel re di denari / amo il mio fante di cuori / la tua ricchezza cos’è / quando l’amore non c’è. / La vita è un gioco / mischia le carte / ride chi vince / chi perde piange. / Se muore il sole / nasce la luna / nella vita ci vuole fortuna / io la fortuna l’ho avuta con te».

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Un altro testo lirico, intitolato «Grammatica amorosa», poi, è particolarissimo nel suo genere e lo scoprirete a seguire: «Superlativo di bellezze siete / cara Eurilla mia, mio sustantivo, / tra voi, e me non è comparativo, / ma nel mio cor solo il gerundio havete. / Di pene all’infinito mi tenete, /ben che di voi sia sempre all’ottativo, / senza arrivar gia mai al coniuntivo, / e ’l genitivo far, come sapete. / Quando havran fine i mei pensieri patienti. / che la mia vita fan, che omai declini, / per mandarli di morte a’deponenti? / Deh per finir questi crudei latini, / io bramo pur per imitar gl’agenti, / solo con voi un dì fare i supini». Colpisce l’osservazione sulla comunicazione che è tale nella misura in cui la conoscenza morfosintattica sia anche parente dell’Eros: guai fare strafalcioni quando si cucca, sarebbe imperdonabile! Come non ricordare Lorenzo Baglioni col suo Congiuntivo sul palco Ariston del Festival di Sanremo: un’irresistibile canzone pop che gioca con ironia e intenti didattici sul tanto bistrattato congiuntivo: «oggigiorno chi corteggia / incontra sempre più difficoltà / coi verbi al congiuntivo / Quindi è tempo di riaprire / il manuale di grammatica / che è molto educativo. / Gerundio imperativo / e infinito indicativo / molti tempi e molte coniugazioni ma / Il congiuntivo ha un ruolo distintivo / e si usa per eventi / che non sono reali / È relativo a ciò che è soggettivo / a differenza di altri modi verbali / E adesso che lo sai anche tu / non lo sbagli più. / Nel caso che il periodo sia della tipologia dell’irrealtà (si sa) / ci vuole il congiuntivo. / Tipo se tu avessi usato / il congiuntivo trapassato / con lei non sarebbe andata poi male / condizionale/ segui la consecutio temporum».

Addirittura, un po’ di Latinorum, chiosa il cantante, che me lo fa ammirare ancor di più, specie alla luce della considerazione che personalmente ho delle lingue antiche come rafforzamento del linguaggio materno. Certo la sua analisi si ferma a quest’unico modo verbale, emblema del dubbio socratico e della dialettica democratica: di certo si accoda ad una lunga eredità che è andata avanti, portando le proprie idee, pur non riconoscendo ad esse la paternità dovuta. Oggi corre l’obbligo di curvare sempre più l’attenzione sulla nostra parlata, ridotta ai minimi termini, con un lessico scilinguato e sgangherato, tra modi e tempi verbali scrematissimi rispetto alla nomenclatura con cui, da piccolissimi, li abbiamo appresi tra non pochi sacrifici. A proposito, c’è un romanzo noir interessantissimo, “La strage dei congiuntivi”, di Massimo Roscia, edito da Exòrma Edizioni, che denuncia il decadimento della conoscenza della lingua italiana, l’uso improprio e scorretto che se ne fa sia a livello scritto che orale. Calzante è un frustulo che sottopongo alla benevola attenzione dei nostri lettori: «soverchiante indicativo che soppianta il congiuntivo schiacciandolo sotto le sue forme grezze ed elementari. Maledetto vecchio che ancora dopo tanti anni non sa distinguere il modo della realtà da quello della possibilità, del dubbio, dell’incertezza. Vorrei acciuffarlo per il bavero e… urlare che il congiuntivo non è un’inutile o aristocratica complicazione da eliminare; il congiuntivo serve per esprimersi meglio, per comunicare correttamente il significato di una frase, farsi comprendere da coloro che ci ascoltano».

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La trama!? Provo a sviscerarla senza tramare contro di essa. In tempi di crisi, come questi, un uomo di una Giunta comunale, Gross Donkey (dall’inglese: asino, somaro, zuccone colossale), chiude il luogo in cui essa è ancora custodita: da qui al suo omicidio il passo si fa breve. Chi ha ucciso l’assessore alla cultura? Sembra l’eco di “chi ha ucciso Laura Palmer?”, interrogativo che è diventato il mantra degli anni ’90.  Sul banco degli imputati una spanna di bizzarri personaggi con un grande disegno criminoso a difesa di una lingua quotidianamente vilipesa, deturpata e ferita a morte: tutti pseudonimi di apologisti dell’antichità. Dionisio il Trace (al secolo Renato Scitio), Cratete di Mallo (Eric Vermillon), Partenio di Nicea (Liang Zitian), Eutichio Proclo, (William Popgun), Asclepiade di Mirlea (Maurice Bonnet): doppie personalità nel loro doppione storico. Paladini dell’analisi morfologica, logica e sintattica della nostra langue, potremmo chiamarli tutti in toto!  A perorazione di costoro la grammatica martirizzata come alibi vendicatore: congiuntivi invertiti con i condizionali, verbi intransitivi resi transitivamente, gerundi sfregiati, troncamenti confusi con le elisioni, concordanze e reggenze errate, frasi smangiate da ogni sorta d’errore e d’orrore: insomma, di tutto e di più! La poesia, a questo punto, può essere terapeutica: in effetti le farmacie letterarie, avviandomi alla conclusione, possono trarci fuori da nebulose indistinte e condurci sani e salvi. Parlare bene, e mi taccio, è anche sentirsi meglio, sicuramente!

Francesco Polopoli

Gruppo MAGOG