17 Maggio 2019

Cagnacci esposto in osteria! Per tutti è una figata (compreso uno Sgarbi felliniano), per me è una boiata pazzesca. In ogni caso, sul geniale pittore ha scritto tutto Alberto Arbasino

Io non so nulla, sento solo puzza di bruciato, vedo tanto fumo verbale e perfino l’arrosto retorico, purtroppo. Soprattutto, non mi piacciono gli intellettuali titanici che scodinzolano intorno all’imprenditore-principino, all’interessato mecenate.

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Penso d’essere l’unico, nell’alcova giornalistica, a impiccarsi con un interrogativo. Possibile che a nessuno sembri una inesorabile ca**ata? Per carità, io sono sempre il più cretino di tutti. Mi riferisco alla notizia divulgata come “Guido Cagnacci. Ritorno a Santarcangelo”. In realtà, Cagnacci non entra in un museo – che non dovrebbe essere il mausoleo del morto, ma il sacrario del meraviglioso. Va in osteria. Torna a Santarcangelo, certo. Ma nel ristorante di un privato. Alla prima mi metto a ridere. Sono cretino, avrò capito male. Purtroppo, la realtà supera la mia idiozia.

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La notizia, di per sé, è buona. Un privato non proprio ignoto, Manlio Maggioli – guida del Gruppo Maggioli – ha fatto spesa e si è comprato alcuni Cagnacci. Leggo dal Resto del Carlino: “Tra le opere acquisite ci sono due ritratti (databili tra il 1640 e il 1645), ‘Testa di ragazzo cieco’ e ’San Bernardino’, che provengono dalla collezione Albicini di Forlì, mentre gli altri due quadri, che hanno come soggetto entrambi ‘La Maddalena penitente’, l’imprenditore santarcangiolese li ha acquistati all’asta, a Londra e a Vienna”. Intorno all’imprenditore mecenate si palesano due esperti del Seicento pittorico italiano: Massimo Pulini, già Assessore alle arti al Comune di Rimini, valente pittore, e Vittorio Sgarbi. La notizia è ribattuta così: “Quattro capolavori di Cagnacci sono tornati finalmente a Santarcangelo”. Esulto. Cagnacci è un pittore straordinario, un avanguardista, uno che indossava svariati cognomi (“Cagnaccio, Cagnazzi, Canalassi, Canlassi”), che “per essere uomo obeso, barbuto e tozzo fu detto Cagnacci” (così il pettegolo Abbecedario pittorico di Pellegrino Antonio Orlandi, 1731), che litigò con tutti e non ci pensò due volte a fulminarsi la fama per l’amore scandaloso con la ricca vedova Teodora Stivivi, riminese. Il problema, però, si fa chiaro fin dal sottotitolo. E io ululo d’indignazione.

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Il sottotitolo: “Valgono un milione, le tele presto saranno esposte nella sala Cagnacci del ristorante Sangiovesa”. Non ci credo. La Sangiovesa è effettivamente un’osteria, sta a Santarcangelo, è proprietà di Maggioli, e tra le sale una ha il nome di Sala Cagnacci. In quella sala, come è lecito, si mangia. I quadri del Cagnacci tra gli afrori della carne che cuoce e il chiasso dei magnoni. Mi pare una scena delirante di un film felliniano, uso a sfottere gli abusi della borghesia trionfante. Da oggi, dunque, Cagnacci si può ammirare nella Chiesa Collegiata di Santarcangelo, pregando, o nel ristorante di Maggioli, mangiando e pagando. Che orrore.

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C’è dunque un lieve difetto nella comunicazione giornalistica, mi dico. I quadri del Cagnacci acquistati da Maggioli – felice chi li ha comprati tanto quanto chi li ha venduti, d’affari si parla mica di arte – non tornano a Santarcangelo. Verranno esposti nel ristorante di Maggioli. La cosa è diversa perché, nonostante le trombe pubbliche, questo non è un fatto pubblico – è pubblicità.

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Fino all’ultimo penso a una fake news. Macché ristorante: Maggioli predisporrà nella sua azienda uno spazio per i Cagnacci, dove andare, gratuitamente, a meditare. Oppure, già che c’è, comprerà uno stabile atto a costruire un breve ‘Museo Cagnacci’. Perché il criterio, per amare l’arte, è predisporsi al contemplare, nell’aureola del silenzio – all’osteria, piuttosto, presti attenzione al palato e agli amici. Ma, si sa, qui basta rimpinzare la pancia per pensare di avere la mente piena.

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Invece. Leggo un referto giornalistico on line (qui). Alla Rocca Malatestiana, mercoledì scorso, sono state presentate le opere del Cagnacci. Sgarbi ha detto – cito testuale – “restituire a Santarcangelo, interpretando il desiderio e il piacere di Tonino Guerra, delle opere, spiritualmente sensuali, di Guido Cagnacci, che prefigurò il sogno di Fellini, è una decisione preziosa e inevitabile quando la volontà, l’amore e la cura sostengono un luogo dell’anima come La Sangiovesa. E ciò accade grazie alla costante attenzione di Manlio Maggioli, mecenate del nostro tempo, custode della tradizione e interprete perfetto del mio pensiero”. C’è modo e modo di gratificare un mecenate, credo, gli incensi intossicano l’aria e dire di un ristorante che è “un luogo dell’anima” è un eccesso fisiologico e filologico.

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Le parole del patron ce le possiamo risparmiare. Cito due frasi. La prima conferma, contro la mia ingenua idiozia, che le cose stanno proprio così: il Cagnacci – immagino, debitamente protetto – entra in osteria. “Ho ritenuto quindi più saggio riportare il Cagnacci – che poi sono diventati quattro – a Santarcangelo, così che anche i santarcangiolesi potessero goderne; ho posizionato le opere in Sangiovesa, proprio nella Sala Cagnacci, che, guarda caso, esiste da sempre”. La seconda è più intrigante, esemplifica la bulimia del possesso. “Ho sempre desiderato avere un Cagnacci”, dice Maggioli. Come se Cagnacci fosse una griffe. Un Rolex. Una Ferrari. Un segno come un altro di un potere qualsiasi.

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La questione non è di luoghi o di abiti estetici (meglio l’osteria del monastero, per carità), ma di dignità estatica. Qual è il modo migliore per amare Cagnacci? Domandatevelo. Altrimenti, è la solita spacconeria dell’imprenditore danaroso che compra una cosa sua, per metterla in uno spazio suo, doma mangi e bevi e lo paghi.

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Immagina. Una Maddalena penitente in osteria. C’è una sacralità nei segni che non può essere dissacrata.

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Al Cagnacci di Maggioli – e alle scodinzolate di Sgarbi – preferisco quello di Alberto Arbasino. Lo scrittore ne scrive, sommamente, in Fratelli d’Italia (“davanti ai Cagnacci ci si ferma di colpo. È un pittore talmente hanté di immagini di seni femminili turgidi e di seggioloni finto-Cinquecento di pelle rossa, con le loro borchie, che intorno a queste immagini fa il vuoto; abolisce tutto il resto, paesaggi e suppellettili; ma con queste continua a costruire una serie di straordinarie Morti di Cleopatra”). Poi ci torna, in Le Muse a Los Angeles, così: “Questa magnifica raccolta italiana… viene presieduta da un sensazionale Guido Cagnacci… Un Cagnacci addirittura più ‘intriguing’ delle sue varie e notorie Cleopatre e Maddalene porcellone che muoiono sui seggioloni da notaio in un tripudio di splendide tette da casino emiliano, agitate, sballottate, frementi; o volano al Cielo in un vortice di stupende cosce bolognesi sorrette da robusti facchini alati, bene accolte da angioletti sviluppatissimi, pesantissimamente commentate dai visitatori padani alle mostre locali, e dipinte con squisitezza soave. La sua Europa migliore, ebbra di velocità con le tette salmastre e aulenti al maestrale o al libeccio, nemmeno sente se eventualmente pungono le rose ‘pompier’ accumulate in grembo per la navigazione sul mitico toro, fiorito anche lui come un bouquet”. Lo invitiamo a Santarcangelo?

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Non so se s’è capito. Per me esporre Cagnacci al ristorante è una candida minchiata. (d.b.)

*In copertina: Guido Cagnacci, “Noè ebbro”, 1663

Gruppo MAGOG