06 Maggio 2020

Le relazioni pericolose tra Charlotte Brontë e Virginia Woolf. "The sane and the insane side by side": rapporti di duplicità in Jane Eyre e Mrs Dalloway

In data 14 ottobre 1922, in piena fase di gestazione di Mrs Dalloway (1925), il suo secondo romanzo propriamente modernista, Virginia Woolf (1882-1941) annota nel suo diario privato: “Mrs. Dalloway has branched into a book; and I adumbrate here a study of insanity and suicide; the world seen by the sane and the insane side by side–something like that […]”. E ancora, in data 19 giugno 1923: “I want to give life and death, sanity and  insanity; I want to criticize the social system, and to show it at work at its most intense […]”.

Sebbene il rischio di operare un parallelismo sfacciato fra esperienze personali dell’autrice e narrazione sia dietro l’angolo ed a volte, anzi, sia la stessa Woolf a suggerirci una chiave di lettura improntata sull’autobiografismo («Have I the power of conveying the true reality? Or do I write essays about myself?»), bisogna tener ben presente la natura dell’oggetto in questione, ossia una fiction. Che tante delle sensazioni provate da Clarissa Dalloway e dei disturbi sofferti dal suo ‘doppio’, Septimus Warren Smith, siano riconducibili alla stessa Woolf, è fuori questione. Nello specifico, alcuni dei sintomi ascrivibili al disturbo da stress post-traumatico proprio di Septimus, dovuto allo shock causato dalla morte del commilitone e amico Evans durante la prima guerra mondiale, sono, di fatto, riconducibili a quelli sofferti dalla stessa Woolf durante le diverse fasi della sua malattia. Tuttavia, instaurare, come da alcuni è stato fatto, una connessione diretta fra il disturbo bipolare o maniaco depressivo dalla quale l’autrice sarebbe stata affetta e la sua produzione, rischia, a mio parere, non solo di ridimensionarne la portata creativa, ma anche di ridurre il romanzo a mero specchio di una mente irrimediabilmente malata. Tuttavia, trovo interessante la tesi che sostiene che il disturbo di Woolf abbia influenzato, per lo meno dal punto di vista strutturale, l’assetto ‘bipolare’ del romanzo, che vede, infatti, intrecciarsi le sensazioni, i ricordi, i punti di vista, le percezioni e le dispercezioni di due personaggi in particolare, Clarissa Dalloway e Septimus Warren Smith, suo doppio e opposto ideale. A separarli per davvero è, fondamentalmente, solo la loro fine. L’una si libera da quella stessa paura aberrante che li accomuna accettando la vita, pur nelle sue contraddizioni più profonde; l’altro, togliendosela.

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Lo stesso vale per uno dei romanzi simbolo dell’età vittoriana, il cui inserimento all’interno di un genere letterario preciso risulta, già di per sé, piuttosto controverso: Jane Eyre (1847) di Charlotte Brontë (1816-1855). Anche in questo caso, buona parte della critica si è ostinata a voler costruire un gioco di perfette corrispondenze fra dati reali e dati fantastici, riducendo a mera trasposizione letteraria di elementi reali un romanzo che, nonostante la sua qualifica di novel (dovuta essenzialmente al contenuto moralistico e alla narrazione di fatti verosimili), attinge abbondantemente dall’universo letterario gotico e dal romance nella sua accezione dispregiativa. Nel romanzo, infatti, non è raro imbattersi in episodi non solo dalla credibilità opinabile, ma persino dalla scarsa verosimiglianza: basti pensare al capitolo XXVIII, in cui l’apparizione, carica di portata mistico-simbolica, di un ignis fatuus spinge Jane (spinta, a sua volta, alla fuga da Thornfield dall’apparizione della madre nelle sembianze della luna), in lotta per la sopravvivenza, a camminare in stato di incoscienza per circa tre miglia. In generale, la produzione letteraria di Charlotte Brontë, a partire da e, probabilmente, a causa della prima biografia dedicatale, Life of Charlotte Brontë di Elizabeth Gaskell, è spesso stata interpretata tout court come un ritratto della travagliata vita dell’autrice. Al di là delle facili corrispondenze fra finzione e vita rintracciabili in Jane Eyre, come quella fra l’istituto di carità di Lowood e quello di Cowan Bridge, dove le sorelle Brontë furono mandate dopo la morte della madre e dove due di loro morirono per consumption, proprio come il personaggio di Helen Burns, anche in questo caso il gioco di sovrapposizioni rischia di risultare insoddisfacente, se non fuorviante. Del resto, è la stessa Brontë a chiarire che, nella narrazione degli episodi sopracitati, il punto di vista che il lettore deve adottare è quello di una bambina sofferente e non, di certo, quello di un adulto che racconta retrospettivamente i propri rancori.

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Perno di questo breve articolo vuole essere l’analisi della duplicità, e della conseguente ambiguità, dei personaggi protagonisti dei due romanzi: da una parte, direttamente dall’upper class londinese, Clarissa Dalloway, che ha il suo doppio nel già citato Septimus Warren Smith, reduce della prima guerra mondiale; dall’altra, Jane Eyre, l’istitutrice composta, dura, seppur ricolma di una passione pronta a sgorgare, il lato ‘buono’ di una medaglia che dall’altra parte nasconde, un po’ come fa la luna con la sua faccia sconosciuta, l’inquietante e ferina Bertha Mason. Inoltre, estremizzando una rete di rapporti che, idealmente, potremmo esprimere attraverso una proporzione matematica, del tipo Jane:Clarissa=Bertha:Septimus, ho provato ad introdurre, seppur in maniera concisa (come, a mio parere, la questione merita), una terza grandezza, prendendo in esame l’interdipendenza che, in alcuni casi, è possibile instaurare fra personaggi e personaggio-autrice, senza, tuttavia, fare del biografismo la principale chiave di lettura di due opere ben più complesse.

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Plain Jane vs. the maniac

Uno degli aggettivi che, nel corso dell’intero romanzo, vengono attribuiti più frequentemente al personaggio di Jane Eyre è plain, che significa essenzialmente ‘semplice’, ‘schietto’, ‘ordinario’, con una forte connotazione di banalità. Jane, insomma, viene ritratta come priva di qualsiasi specificità che la contraddistingua, già a partire dal suo aspetto fisico, a differenza delle affascinanti e appariscenti Blanche e Bertha. Eppure, agli occhi di Rochester, Jane è quasi una creatura fatata,  non propriamente reale né tantomeno umana, tanto da essere spesso definita elf o alien. Eppure, sarà proprio Rochester ad istituire la contrapposizione più marcata fra la plain Jane e la folle Bertha, in un passo del capitolo XXVI: “‘That is my wife’, said he. […] ‘And this is what I wished to have’ (laying his hand on my shoulder): ‘this young girl, standing so grave and quiet at the mouth of hell, looking collectedly at the gambols of a demon. […] look at the difference! Compare these clear eyes with the red balls yonder- this face with that mask- this form with that bulk”.

Il potere demiurgico delle parole di Rochester, che oscillano come un pendolo fra un this puro, salvifico, e un that sozzo e demoniaco, fa di Bertha una creatura informe, a mala pena umana, cui è stata strappata, ancora una volta, la possibilità di parlare per se stessa.

In realtà, le affinità fra Jane Eyre e Bertha Mason evidenziate dalla critica, specialmente da quella di linea femminista, sono molteplici. Possiamo affermare, citando Sandra M. Gilbert, che «Bertha is Jane’s truest and darkest double: she is the angry aspect of the orphan child, the ferocious secret self Jane has been trying to repress ever since her days at Gateshead». Sono due, dunque, le modalità attraverso cui il lettore può interpretare il loro rapporto: 1) per contrasto, per cui quanto più Bertha è ‘folle’, tanto più Jane è ‘sana’; 2) per affinità, ossia Jane e Bertha altro non sono che due risvolti di una stessa mente, the sane and the insane.

Dato l’intricato sistema di corrispondenze fra le due figure, di seguito riporto alcuni esempi particolarmente esplicativi.

La reclusione nella red room della passionate child, essere troppo vicino alla natura e per questo non addomesticabile, è chiaramente parallela a quella della madwoman in the attic. Entrambe vengono rinchiuse per la loro incapacità di reprimere una rabbia accecante e una violenza incontenibile, per l’impossibilità di arginare l’eccesso, che, già in età vittoriana, veniva identificata come causa scatenante di follia. Non è un caso, infatti, che i primi segnali della presenza di Bertha, quelle risate tristi e quelle urla demoniache inizialmente attribuite a Grace Poole, si manifestino proprio nei momenti in cui Jane appare maggiormente contrastata o desiderosa di novità e di libertà. Una delle caratteristiche più rappresentative di Jane, del resto, è la restlessness («the restlessness was in my nature, it agitated me to pain sometimes»): il romanzo è intessuto di episodi in cui la vediamo camminare senza tregua backwards and forwards, prima nella red room, poi nella sua stanza di Lowood, e infine anche a Thornfield, proprio come fa Bertha nella sua soffitta.

La fitta trama di analogie fra i due personaggi, come se non bastasse, viene avvalorata dalla scena della prima apparizione in carne ed ossa di Bertha nel romanzo: Jane, in stato confusionario, la osserva atterrita di spalle, mentre, dopo aver indossato il suo velo nuziale, finisce per stracciarlo e calpestarlo, scorgendo appena quel viso bestiale attraverso il proprio specchio, quasi a voler rappresentare visivamente le fattezze del proprio doppio.

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Clarissa-Septimus e la mente androgina

Dopo aver rivoluzionato il concetto d’identità di genere con il romanzo Orlando: A Biography, nel 1929 Virginia Woolf pubblica A Room of One’s Own, una delle opere fondanti nel campo dei women’s literary studies, in cui viene introdotto il concetto di mente androgina. “Why do I feel that there are severances and oppositions in the mind, as there are strains from obvious causes on the body? What does one mean by “the unity of the mind”? … Clearly the mind has so great a power of concentrating at any point at any moment that it seems to have no single state of being. […] it gave me made me also ask whether there are two sexes in the mind corresponding to the two sexes in the body, and whether they also require to be united in order to get complete satisfaction and happiness? And I went on amateurishly to sketch a plan of the soul so that in each of us two powers preside, one male, one female; and in the man’s brain the man predominates over the woman, and in the woman’s brain the woman predominates over the man. The normal and comfortable state of being is that when the two live in harmony together, spiritually co-operating”.

La conformazione di tale state of being ben si adatta, retrospettivamente, al caso specifico di Mrs Dalloway. I due protagonisti (o meglio, coloro i cui pensieri, sensazioni, (dis)percezioni vengono riportate in maggior misura rispetto a quelle degli altri personaggi), altro non sono che due forme diverse della stessa mente. Leggerli come complementari, come facciamo con Jane e Bertha, è inevitabile. Del resto, lo scopo di Woolf è dichiaratamente quello di ritrarre «the sane and the insane side by side». Sebbene Clarissa e Septimus non si incontrino mai nel corso del romanzo, i due sono legati da una comune esperienza di malattia e da un comune sentire, che li rende vulnerabili tanto alla vita quanto all’idea stessa della morte. La paura della solitudine e della reclusione che, alla fine del romanzo, spingerà Septimus al suicidio, non è poi così distante da quella che sembra soffocare la cinquantaduenne Clarissa al solo pensiero di quel narrow bed nella sua stanza, su in soffitta, chiaro simbolo di decadimento e morte.

Entrambi i personaggi, inoltre, sembrano legati da una comune tendenza omosessuale, prontamente repressa da tutti e due. Secondo Alex Zwerdling, infatti, «Woolf’s fiction frequently depicts homosexual and lesbian attachments with sympathy and yet without special pleading». In tal senso, tuttavia, bisogna segnalare una differenza da parte dei due personaggi nel processo di riconoscimento e accettazione della propria identità sessuale: sebbene Clarissa attraverso il matrimonio finisca per rientrare alla perfezione fra i ranghi di una benpensante società, in fin dei conti, non così diversa da quella vittoriana, perdendo parte della propria individualità e connotandosi esclusivamente come moglie, in lei il ricordo di quel breve periodo giovanile trascorso di compagnia di Sally Seton permane ancora come «the most exquisite moment of her whole life». “The strage thing, on looking back, was the purity, the integrity, of her feeling for Sally. It was not like one’s feeling for a man. It was completely disinterested, and besides, it had a quality which could only exist between women, between women just grown up. It was protective, on her side; sprang from a sense of being in league together, a presentiment of something that was bound to part them (they spoke of marriage always as a catastrophe), which led to this chivalry, this protective feeling which was more on her side than Sally’s. […] ‘if it were now to die ‘twere now to be most happy’. That was her feeling- Othello’s feeling, and she felt it […]”.

Diverso è il caso di Septimus, che, infatti, risulta affetto da una psicosi ben più grave di quella di regola imputabile allo shell shock. La sua malattia è specchio di una società repressa, soffocata dalle pressioni dell’autorità, in cui smettere di sentire può rappresentare una via d’uscita. La sua capacità di connessione emotiva con il mondo esterno muore insieme ad Evans, ma se il suo disturbo degenera è proprio a causa dell’impossibilità di accettare la propria natura, testimoniata segnatamente dal matrimonio con Lucrezia, per la quale non ha mai provato alcuna forma di amore. Tuttavia, quel crime taciuto, cui Septimus fa spesso riferimento senza riuscire a ricordarlo (per quello che Freud avrebbe definito un processo di rimozione a tutti gli effetti), affiora nelle sue allucinazioni, che hanno Evans come protagonista, nei suoi dilemmi («But if he confessed? If he communicated? Would they let him off then, his torturers?»), nel fastidio provato nei confronti delle moleste attenzioni della moglie («Love between man and woman was repulsive to Shakespeare. The business of copulation was filth to him before the end»), sempre interpretate, infatti, come una vera e propria interruzione di quello che il personaggio, attraverso l’immaginazione, sta costruendo nella propria interiorità.

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«You shall yourself pluck out your right eye; yourself cut off your right hand». Follia ed eccesso in Jane Eyre

Diretta conseguenza delle idee di matrice vittoriana di individualismo sfrenato e self empowerment è l’aver concepito il disturbo mentale come un eccesso nell’aver portato al massimo le proprie facoltà che, sovraeccitate, fanno sì che il soggetto ne perda il totale controllo. Non a caso, quando, nel capitolo XXV, Rochester cerca di convincere Jane della natura allucinatoria di quella bestiale figura di donna vista nella sua stanza, definisce quella visione come «the creature of an over-stimulated brain».

Durante l’età vittoriana, come ho già accennato, i bambini e, ancor più, le donne, venivano percepiti come esseri impossibili da addomesticare, in virtù del vincolo con una dimensione naturale che sarebbe appartenuta loro in misura maggiore rispetto al ‘maschio adulto’. La passionate child ne è, per l’appunto, esempio massimo. Tuttavia, i fattori in grado di influire sulla sottile linea di demarcazione che separa ciò che è ‘sano’ da ciò che non lo è, sono molteplici.

L’eccesso assume, in primo luogo, la veste della sfrenatezza sessuale. Nel capitolo XXVII, Rochester dice: “What a pigmy intellect she had, and what giant propensities! […] Bertha Mason, the true daughter of an infamous mother, dragged me through all the hideous and degrading agonies which must attend a man bound to a wife at once intemperate and unchaste. […] her excesses had prematurely developed the germs of insanity”.

All’inizio dello stesso capitolo, tuttavia, si nasconde un indizio che sembra suggerirci che sia proprio Jane, eroina dai forti desideri, ad essere imputabile di sfrenatezza sessuale. Durante uno scontro interiore fra Passione e Coscienza, quest’ultima asserisce inesorabile: “‘[…] you shall tear yourself away, none shall help you: you shall yourself pluck out your right eye; yourself cut off your right hand: your heart shall be the victim, and you the priest to transfix it’”

Questa sorta di profezia allude a un passo del Nuovo Testamento (Matteo 5:29-30) in cui Cristo condanna le fantasie sessuali, con particolare riferimento all’atto della masturbazione: “Ora, se l’occhio tuo destro ti fa cadere in peccato, cavalo e gettalo via da te; poiché val meglio per te che uno dei tuoi membri perisca, e non sia gettato l’intero tuo corpo nella geenna. E se la tua man destra ti fa cadere in peccato, mozzala e gettala via da te; poiché val meglio per te che uno dei tuoi membri perisca, e non vada l’intero tuo corpo nella geenna”.

In quanto sede ideale dei sentimenti e depositario della vita stessa, Brontë estende l’imperativo anche al cuore. Tutto il romanzo è intessuto di immagini simboliche (prima fra tutte quella del fuoco, emblema della passione) che, da una parte, istituiscono una più marcata contrapposizione fra Jane e Bertha ma, dall’altra, le avvicinano, mettendo a confronto due modalità dell’essere donna ugualmente vive e passionali.

Il riferimento alla perdita dell’uso del braccio destro e all’asportazione degli occhi (classico simbolo di evirazione, già a partire dall’Edipo Re sofocleo, e punizione per eccellenza della nefandezza sessuale), prefigura, per altro, la pena che Rochester sarà costretto a pagare per il tentato adulterio dopo l’incendio della tenuta di Thornfield, rasa al suolo significativamente dal fuoco distruttivo della passione. Il riferimento alla masturbazione, inoltre, appare particolarmente calzante nel caso di Bertha: Sally Shuttleworth osserva che, non essendo specificata nel romanzo la presenza di altri partner oltre a Rochester, è probabile che la sfrenatezza sessuale di Bertha possa essersi rivolta verso se stessa. In età vittoriana, infatti, il ‘vizio’ della masturbazione nelle donne era considerato uno dei principali segnali della presenza di un disturbo mentale. Inoltre, in quanto Altro per eccellenza, Bertha rappresenta la depravazione sessuale tradizionalmente attribuita al mondo ‘esotico’ e alle classi sociali inferiori. Impossibile dunque, anche alla luce di ciò, non pensare a Jane.

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«There was nothing whatever the matter». Critica sociale e ottusità in Mrs Dalloway

L’idea che i disturbi mentali siano il risultato di un eccesso non scompare di certo con la fine dell’età vittoriana. In Mrs Dalloway ciò che fa di Clarissa e Septimus gli osservatori privilegiati è che entrambi sono portatori di percezioni più acute rispetto alla norma, la cui portata fortemente simbolica assume valore di rivelazione delle componenti nascoste della realtà. Sono proprio la valenza mistico-simbolica di tali (dis)percezioni, l’alternanza continua fra punto di vista ‘sano’ e ‘insano’ e l’impossibilità, da parte del lettore, di individuarne distintamente i confini, a tessere la fitta rete di connessioni invisibili su cui poggia tutto quanto il romanzo. L’unica differenza fra Clarissa e Septimus risiede nella loro capacità di ‘arginare l’eccesso’: se inseriti in un setting convenzionale, se attenuati dal compromesso, la potenza di tali moments of being può non rivelarsi del tutto fatale. Tuttavia, esiste un prezzo da pagare in entrambi i casi: da una parte, la prorompenza dell’eccesso porta inevitabilmente all’isolamento, alla perdita di contatto con il mondo esterno e all’instabilità delle percezioni stesse; dall’altra, l’inserimento forzato nella società, l’integrazione a tutti i costi, si pagano con un senso di perenne insoddisfazione dall’effetto inesorabilmente anestetizzante.

La critica sociale che fa da sfondo a tutto il romanzo, dunque, non fa eccezioni per nessuno, tantomeno per i membri dall’upper class, dagli invitati al party organizzato da Clarissa ai due medici presso i quali Septimus è in cura. Nel caso specifico, considerare Septimus come portatore delle più pericolose percezioni di Woolf e, dunque, istituire un parallelo con la vita dell’autrice, può risultare parecchio interessante ai fini della nostra analisi, specialmente in merito alla questione delle discutibili metodologie di cura adottate nei confronti dei pazienti affetti da disturbi mentali prima dell’avvento della psicanalisi.

Il primo dei medici interpellati, il dottor Holmes, descritto attraverso i connotati di un uomo perfettamente in salute (large, fresh-coloured, handsome), incarna tutta l’ottusità che si nasconde dietro alla concezione della malattia propria del tempo. I disturbi mentali, infatti, venivano ricondotti a semplici carenze fisiche per essere, in ogni caso, sminuiti dagli stessi ‘professionisti’ che avrebbero dovuto occuparsene. Emblema di ciò, nel romanzo, sono l’evidente abbassamento di registro e l’adozione di un tono fin troppo colloquiale da parte del dottor Holmes con Septimus e la moglie Lucrezia. Il fine è, ovviamente, la svalutazione dei sintomi sottopostigli. “Dr. Holmes examined him. There was nothing whatever the matter, said Dr. Holmes. […]- nerve symptoms and nothing more, he said. […]. But, he continued, health is largely a matter in our own control. Throw yourself into outside interests; take up some hobby. […] He had actually talked of killing himself to his wife, quite a girl, a foreigner, wasn’t she? Didn’t that give her a very odd idea of English husbands? Didn’t one owe perhaps a duty to one’s wife? Wouldn’t it be better to do something instead of lying in ben? For he had had forty years’ experience behind him; and Septimus could take Dr. Holmes’s word for it- there was nothing whatever the matter with him”.

Dal passo riportato emerge un’altra costante nel trattamento di tale tipologia di disturbi: la ‘colpa’ del malessere viene fatta ricadere interamente sul paziente, giudicato inadeguato a prendere in mano le redini della propria sanità fisica e mentale, poiché pigro o incapace di trovare una valvola di sfogo adeguata. Il dottor Holmes, inoltre, in perfetto accordo con gli orientamenti psichiatrici del tempo, consiglia a Septimus di assumere del bromuro e di prestare particolare attenzione all’alimentazione. Le stesse cure furono propinate anche a Virginia Woolf dai dottori consultati durante i suoi innumerevoli periodi di crisi. Tutti loro erano concordi nell’affermare che Woolf fosse affetta da nevrastenia, ad eccezione di Maurice Wright, uno specialista che aveva precedentemente avuto in cura Leonard Woolf e che adottava il metodo ipnotico con i propri pazienti. Nonostante ciò, la cura somministrata a Virginia consisteva nell’allora celebre trattamento di Weir Mitchell, consigliato, per l’appunto, in casi di nevrastenia, i cui elementi fondamentali erano il riposo e una grande attenzione alla nutrizione (si credeva, infatti, che un ‘eccesso controllato’ nell’alimentazione avrebbe aiutato i neuroni a stabilizzarsi alleviando, di conseguenza, gli effetti del disturbo nella sua interezza).

Il secondo dei medici consultati da Septimus e Lucrezia, il dottor Bradshaw, sembra almeno apparentemente distaccarsi dall’ottusità di cui fa prova il dottor Holmes. Dotato (probabilmente solo secondo il suo stesso parere) di sympathy, tact, understanding of the human soul, in veste di specialista comprende immediatamente che in Septimus c’è qualcosa che non va, forse con fin troppa rapidità e arroganza. “He could see the first moment they came into the room […]; he was certain directly he saw the man; it was a case of extreme gravity. It was a case of complete breakdown- complete physical and nervous breakdown, with every symptom in an advanced stage, he ascertained in two or three minutes”.

In questo caso entra in gioco una terza coppia di doppi. Con la sua aria distinta e il suo titolo di baronetto, il dottor Bradshaw rappresenta l’emblema dell’autorità, insieme al Big Ben, che con i suoi rintocchi scandisce il tempo convenzionale della realtà esterna e oggettiva. Con un atteggiamento tipicamente patronising, di evidente superiorità nei confronti dei propri interlocutori, Bradshaw non riesce a mascherare fino in fondo la distasteful impression suscitatagli dalla sciattezza di Septimus e il generale disgusto nei confronti delle classi subalterne.

Ancora una volta, ‘follia’ ed eccesso vanno a braccetto, e il dottor Bradshaw ce lo ricorda in maniera estremamente politically correct («[…] he never spoke of ‘madness’; he called it not having a sense of proportion»). Nella sua disperata invocazione al sense of proportion, tuttavia, sembra proprio che si nasconda, se non una psicosi vera e propria, per lo meno un’evidente mania di grandezza, al pari di quella di chi entra nel suo studio credendosi Dio (quella che egli stesso definirebbe a common delusion). “Health we must have; and health is proportion […]. Proportion, divine proportion, Sir William’s goddes, was acquired by Sir William walking hospitals, catching salmon, begetting one son in Harley Street by Lady Bradshaw […]. Worshipping proportion, Sir William not only prospered himself but made England prosper, secluded her lunatics […] until they, too, shared his sense of proportion”.

Il delirio di onnipotenza di Bradshaw, in realtà, altro non fa che riflettere il potere castrante dell’autorità sociale, rivelandoci la malattia che lo pervade. Imporre i propri canoni e arrogarsi il diritto di decretare ciò che rientra nella normalità e di escludere tutto ciò che se ne discosta… nulla di più folle.

Chiara Paterna

*Chiara Paterna (1996) si è laureata in Letteratura, filologia e linguistica italiana presso l’Università degli studi di Torino con una tesi di ricerca dal titolo “L’eredità leopardiana in Cesare Pavese”. Si è specializzata nell’ambito dell’editoria e della comunicazione digitale e, di recente, si è occupata di correzione di bozze, traduzione e digital marketing per Il leone verde Edizioni. Nel 2019 ha fondato la rivista letteraria online Voce del Verbo. Ha pubblicato un intervento nel volume “Leggere la Lettera. Il maestro don Lorenzo Milani 50 anni dopo”, e alcuni articoli su Rivista Blam e su Pangea.

**In copertina: una immagine dal poster di “Jane Eyre” (2011), il film di Cary Fukunaga con Mia Wasikowska e Michael Fassbender

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