22 Luglio 2020

“Re Nebbia entrò al galoppo nella piazza, tirò le redini del suo stallone e cominciò a sciogliere il suo grande turbante bianco”. Iosif Brodskij a Venezia

“È tutto quello che si può fare per un uomo migliore di noi: continuare nel suo filone; in fondo, credo, sta in questo l’essenza di ogni civiltà” (Per compiacere un’ombra)

Con il suo primo stipendio, appena terminato il primo semestre ad Ann Arbor, Brodskij trascorre il Natale a Venezia. È il 1972, dalla Russia è stato espulso mesi prima e Spender e Auden l’hanno accolto a Londra. Poi sempre grazie a Auden ha iniziato a insegnare nell’università del Michigan. Fondamenta degli Incurabili esordisce com’è noto con il suo arrivo a Venezia, “una gelida sera di dicembre”. Uscito dal cubo di pietra illuminato di Santa Lucia, nel buio che nasconde la città lo colpisce già “sui gradini della Stazione” l’odore di Venezia d’inverno: “Era una notte di vento, e prima che la mia retina avesse il tempo di registrare alcunché fui investito in pieno da quella sensazione di suprema beatitudine: le mie narici furono toccate da quello che per me è sempre stato sinonimo di felicità, l’odore di alghe marine sotto zero”.

Lo stesso odore di San Pietroburgo che lo riporta alla Russia e alle sue radici, per cui gli sembra quasi di arrivare “al paese natale, dopo anni di assenza”. Con senso dell’umorismo ribadirà in futuro l’idea, immaginando una qualche forma di reincarnazione animale, pur di nascere cittadino veneziano: Venezia per molti aspetti assomiglia a San Pietroburgo, la mia città natale. Ma più di tutto è un posto così bello che puoi viverci anche senza essere innamorato. È una città la cui bellezza ti fa subito capire che qualsiasi cosa riuscirai (…) a produrre nella tua vita (…) non sarà mai altrettanto bella. Venezia è inarrivabile. Se mi fosse concesso di reincarnarmi sotto un’altra forma, sceglierei di essere un gatto a Venezia, o qualsiasi altra cosa, purché sia a Venezia. Persino un ratto andrebbe bene. Questa idea fissa di andare a Venezia a tutti i costi, l’avevo già maturata intorno al 1970. Il mio progetto era di trasferirmi lì e di prendere in affitto un appartamento al piano terreno di un palazzo, uno qualsiasi, purché affacciato su un canale, e di sedermi lì a scrivere…” (Conversazioni, L’arte della poesia)

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Venezia è per lui “la mia personale versione del Paradiso”, un paradiso dove non è tutto aerea leggerezza, anzi, perché “la gioia è qualcosa di molto oscuro” (Conversazioni, Intervista a Josif Brodskij), e ha a che fare più con la meditazione che con l’euforia. Con la lentezza accordata alle onde che vanno e vengono contro le Fondamenta, Venezia è di fatto una città che favorisce contemplazione e raccoglimento.

La passione per il mare e una città di mare gli viene chiaramente da Pietroburgo (così lui preferisce chiamarla): “Credo che il mare, per me, in un certo senso fisico, sia semplicemente sinonimo di libertà – una specie di scorciatoia per l’infinito”. Con i colori e i suoni del Baltico, Pietroburgo sembra esser stata anche la sua iniziazione alla poesia:

Sono nato e cresciuto nelle paludi baltiche, dove
onde grigie di zinco vengono a due a due;
di qui tutte le rime …

Brodskij non ha d’altronde mai nascosto il suo amore per l’Italia in generale: “l’Italia è sinonimo, almeno ai miei occhi, di civiltà”, “Venezia la amo proprio, e quel libro [Fondamenta degli Incurabili, n.d.r.] vorrei non aver mai finito di scriverlo”. A più riprese ribadisce l’intimo nesso – estetico e morale – tra noi e il luogo in cui viviamo e ciò che guardiamo, tra uomo e paesaggio: “Non dovremmo mai dimenticarci che noi umani siamo le frange vibranti delle masse di materia inanimata” (Conversazioni, Un’intervista a Josif Brosdkij). La convinzione si fa immagine nelle Strofe veneziane:

Scrivo questi versi, seduto all’aperto
su una sedia bianca,
d’inverno, con la sola giacca addosso,
dopo molti bicchieri, allargando gli zigomi
con frasi in madrelingua.
Nella tazza si raffredda il caffè.
Sciaborda la laguna, punendo con cento minimi sprazzi
la torbida pupilla con l’ansia di fissare nel ricordo
questo paesaggio, capace di fare a meno di me. (Strofe veneziane 2, VIII, Poesie Italiane)

Le Strofe veneziane Brodskij le scrive in russo in una sorta di dittico datato 1982: nella prima parte – dedicata a Susan Sontag – tema dominante è la notte su Venezia, la luce del giorno nella seconda – dedicata a Gennaij Šmakov. L’amore per la città si mostra in scenari incantati, a tratti surreali, sempre stupendi.

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Brodskij sembra essersi “fatto un’anima veneziana”. La città per lui non ha segreti. Non solo si è adattato alla perfezione a riti e necessità veneziani, ma niente gli è sconosciuto, nemmeno il sentimento quasi d’indulgenza dei veneziani verso la nebbia, questo feltro immaginario che avviluppa Venezia specialmente d’inverno quando, “fitta, accecante e immobile”, ferma movimenti e attività per ore o giorni di sospensione allucinata e “trascina la città fuori dal tempo”: “La nebbia non cancella soltanto i riflessi, ma tutto ciò che abbia forma: edifici, esseri umani, porticati, ponti, statue. (…) Nebbia vuol dire tempo per leggere, per tenere la luce accesa tutto il giorno, (…) per ascoltare le notizie della BBC, per andare a letto presto. In breve, tempo per obliare se stessi, nella scia di una città che ha smesso di farsi vedere”.

Veneziana è anche l’accettazione di fenomeni che appartengono esclusivamente alla città, come l’acqua alta: “In certe sere d’inverno il mare, incalzato dal vento contrario di levante, riempie ogni canale”. Venezia “si ritrova con l’acqua alle caviglie” e le barche legate alle briccole “s’impennano” o “dondolano come culle” (Laguna IV). «Acqua alta» una voce dice alla radio “e il traffico umano ha una pausa. Le strade si svuotano, negozi, bar, ristoranti e trattorie chiudono i battenti. Solo le loro insegne restano accese, mentre “il selciato ha la soddisfazione momentanea di mettersi alla pari con i canali”.

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Appena la nebbia si solleva ci sono giorni d’inverno come folgori d’acciaio, in cui la luce dilaga abbagliante, irreale: “il sole scavalca la propria immagine dorata ai piedi di San Giorgio e va a danzare sopra le innumerevoli squame delle piccole onde che increspano la Laguna, (…) e tu sei lì, con gli occhi socchiusi a sbirciare le mosse ossessionanti dei piccioni impegnati nella loro partita sulla scacchiera della grande piazza. L’espresso rimasto in fondo alla tua tazzina è l’unico punto nero in un raggio – così ti sembra – di molte miglia”. A mezzogiorno, la luce “strimpella con i suoi lunghi raggi (…) su arcate, portici, comignoli di mattoni rossi, santi e leoni”.

Con il declinare delle ore si affievolisce e scompare: “Al tramonto tutte le città sembrano meravigliose, ma alcune più di altre. I rilievi diventano più morbidi, le colonne più rotonde, i capitelli più ondulati, i cornicioni più netti, le guglie più affilate, le nicchie più profonde, gli apostoli più solenni nei loro panneggi, gli angeli più aerei. Nelle strade si fa buio, ma è ancora giorno per le fondamenta e per quel gigantesco specchio liquido in cui motoscafi, vaporetti, gondole, barchini, barconi si accaniscono a calpestare (…) le facciate barocche e gotiche, senza risparmiare la tua personale immagine riflessa o quella di una nuvola di passaggio. “Dipingi” bisbiglia la luce invernale”.

E nel “paradiso” che è il frontone di San Zaccaria “si concede un’altra oretta di riposo tra le conchiglie marmoree”: “questa è la luce invernale nella sua massima purezza. (…) È una luce privata”. La città, beata, vi ritrova una carezza celeste: “Un oggetto, dopo tutto, è ciò che rende privato l’infinito”.

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Fondamenta degli incurabili elabora anche l’idea fondamentale dell’equivalenza acqua-tempo-divino: “ho sempre pensato che se lo spirito di Dio aleggiava sopra la faccia dell’acqua, l’acqua non poteva non rifletterlo. Da qui il mio debole per l’acqua, per le sue pieghe, rughe, increspature e – poiché sono un nordico – per il suo grigiore. Penso, molto semplicemente, che l’acqua sia l’immagine del tempo…”.

L’idea, ripetuta – “esce dalle onde il Tempo” (Laguna VI) – Brodskij potrebbe averla in parte derivata anche dai Saggi di Emerson, “sento passare il tempo come un rifluente mare” (Storia), che sappiamo aver influenzato anche Eliot per il concetto del tempo eternamente presente. In ogni caso, la fusione tempo-acqua gli sta a cuore, se con questa chiude l’intero viaggio-riflessione-vagabondaggio acqueo, estetico e temporale sul suo sogno veneziano: “Ripeto: acqua è uguale a tempo, e l’acqua offre alla bellezza il suo doppio. Noi, fatti in parte d’acqua, serviamo la bellezza allo stesso modo. Toccando l’acqua, questa città migliora l’aspetto del tempo, abbellisce il futuro. Ecco la funzione di questa città nell’universo. (…) Perché noi andiamo e la bellezza resta. Perché noi siamo diretti verso il futuro mentre la bellezza è l’eterno presente”.

E nel tono da conversazione tra amici, informale ma denso di lirismo che anima tutto questo piccolo e prezioso libro, sappiamo che la notte di Capodanno, “con un gusto un po’ pagano”, ha sempre cercato di trovarsi vicino all’acqua, il mare o l’oceano, “per assistere all’affiorare di una nuova porzione, di un’altra tazza di tempo”.  Venezia sembra incarnare quest’essenza acqueo-temporale, che ha la meglio persino sullo spazio: “Il pizzo verticale delle facciate veneziane è il più bel disegno che il tempo alias acqua abbia lasciato sulla terraferma (…). È come se lo spazio, consapevole – qui più che in qualsiasi altro luogo – della propria inferiorità rispetto al tempo, gli rispondesse con l’unica proprietà che il tempo non possiede: la bellezza”.

Fluidi essendo anche pensiero e scrittura, si è perciò “veneziani per definizione, perché (…) il tempo-alias acqua raccoglie i nostri riflessi – alias amore per questo posto – e li lavora (…) fino a trasformarli in trame irripetibili”. Qui si è obbligati ad andare a piedi, e la città si stende con tranquillità alla vista anche da una barca. La velocità è bandita, la città la rifiuta, e allora si è portati a ‘guardare’ con più cura che altrove, lo sguardo cambiato una specie di periscopio naturale. L’essere un dedalo, un labirinto di pietra e acqua aiuta il sortilegio: “È una conseguenza naturale della topografia veneziana, dei vicoli tortuosi e sguscianti come anguille, che alla fine ti portano a (…) una piazza con una chiesa al centro, incrostata di santi, che ostenta nel cielo le sue cupole simili a meduse. Qualunque meta tu possa prefiggerti nell’uscire di casa, sei destinato a perderti in questo groviglio di calli e callette che ti invitano a percorrerle fino in fondo, ti lusingano e ti ingannano, perché in fondo c’è quasi sempre l’acqua di un canale…”.

Così, ad aggirarsi nei labirinti delle calli veneziane si è spesso incerti se s’insegua uno scopo, si cerchi di raggiungere un luogo, o piuttosto non si stia cercando di perdersi, confondersi con le ombre al tramonto. Un fenomeno osservato anche da Byron nei suoi anni veneziani, immortalati nel Canto IV di Childe Harold.

Il suo grande amore per Venezia Brodskij a un certo punto lo dichiara apertamente: è una storia di “fedeltà quando un uomo ritorna sul luogo del proprio amore, anno dopo anno, nella stagione sbagliata, senza nessuna garanzia di essere riamato”. L’amore “è una liason tra un riflesso e il suo oggetto” disinteressata e a senso unico. Perciò lui torna, “al modo che la marea porta l’Adriatico e, per estensione, l’Atlantico e il Baltico”: finché l’elemento continua a esistere, esisteranno anche i suoi riflessi, “sotto forma di un viaggiatore che ritorna o di un sogno …”. Ma non è dell’uomo saper trattenere a lungo la bellezza: “Poiché siamo esseri finiti, una partenza da questa città sembra ogni volta definitiva: lasciarla è un lasciarla per sempre”. “Dopo, tutto è delusione”.

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La Venezia brodskijana non è popolata solo da veneziani in carne e ossa, residenti e turisti, bensì anche da figure angeliche. Sono tanti gli angeli e le statue di angeli, arcangeli e cherubini che “se si facesse un censimento, potrebbero risultare più numerosi della popolazione umana”, e persino le imposte delle finestre, quando sono “sono aperte, somigliano alle ali di angeli”.

E poi ci sono gli animali, in primis il leone custode della città, un “leone alato e colto” (Laguna VII). Venezia è affollata da “torme di leoni: leoni alati, col libro aperto sul motto «Pax tibi, Marce, Evangelista meus», o leoni dal normale aspetto felino”, che qui sono “onnipresenti…”. Quelli alati, a rigore, appartengono “alla categoria dei mostri”, ma sono anche “un’altra versione di Pegaso, più sveglia e più istruita”.

Forse anche più numerosi e altrettanti simboli cittadini, i colombi “nella loro latente inclinazione per l’architettura accentuano ogni curva e ogni cornicione del barocco”. A volte insieme, gabbiani e colombi “accorrono per mettersi a fuoco”, o “si dissolvono nell’aria”.

Le ultime pagine tornano a scenari notturni, “una notte di luna, fredda e tranquilla” e una gondola che va, il “modo autentico” di guardare le facciate dei palazzi, “quello originale: così puoi vedere quello che vede l’acqua”: La gondola si mosse su e giù, a zig-zag, come un’anguilla, attraverso la città silenziosa che incombeva sopra le nostre teste, cavernosa e deserta, simile a quell’ora così tarda, a un’immensa scogliera corallina (…) Trovarsi in movimento dentro quegli stessi canali che di solito lo sguardo scavalca per passare da una riva all’altra era come acquistare una dimensione in più. Ben presto ci affacciammo nella Laguna, diretti verso l’isola dei morti, San Michele. La luna, straordinariamente alta e sottile, simile a una enigmatica «t» per via di una nuvola che la incrociava, lasciava appena una traccia sulla superficie dell’acqua; e la gondola scivolava (…) senza il minimo rumore. C’era qualcosa di erotico, senza dubbio, nel trascorrere del suo agile corpo sull’acqua, senza rumore, senza traccia…”.

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La gondola rientra a Cannaregio, molto probabilmente dalla Sacca della Misericordia fino al Canale della Madonna dell’Orto, con il campo e la chiesa omonima: “Le chiese, ho sempre pensato, dovrebbero restare aperte tutta la notte; o almeno dovrebbe quella della Madonna dell’Orto”, con il “meraviglioso dipinto del Bellini”. Ma la porta è chiusa, e la gondola prosegue con “rado baluginare di minerale elettrico”. È questo, dunque, sapere “cosa può significare per l’acqua essere accarezzata dall’acqua”.

Il giro termina “presso la gabbia di cemento del Bauer Grünwald Hotel”, dalla nota architettura moderna post bellica, perché i partigiani hanno fatto saltare l’edificio preesistente che ospitava il comando tedesco: “Come pugno nell’occhio, l’albergo fa buona compagnia alla chiesa di San Moisé – la facciata più laboriosa della città”.

Il poeta si avvia verso il suo albergo. Inizia intanto a rimuginare certi versi che la memoria gli riporta in mente. Ma ha voglia di bere qualcosa e svolta per piazza San Marco con la speranza che il Florian sia ancora aperto. In effetti sta chiudendo, tuttavia lui riesce comunque a farsi dare un drink da un cameriere che conosce. Uscito dal portico, passa “in rassegna le quattrocento finestre della piazza”: “C’era un deserto assoluto, non un’anima. Le finestre ad arco correvano nel solito ordine ossessionante, come onde idealizzate. (…) La nebbia cominciò a inghiottire la piazza. Era un’invasione tranquilla, ma pur sempre un’invasione. Vidi le sue lance e alabarde avanzare in silenzio ma molto veloci, dalla parte della Laguna, come soldati a piedi che precedessero la loro cavalleria pesante. «In silenzio, e molto veloci», dissi a me stesso. Da un momento all’altro il loro re, Re Nebbia, poteva spuntare da dietro l’angolo in tutta la sua gloria caliginosa. «In silenzio, e molto veloce» dissi ancora a me stesso. Ecco, era l’ultimo verso della Caduta di Roma di Auden, ed era questo posto ad essere «totalmente altrove». Tutt’a un ratto sentii che lui era dietro di me, e mi voltai quanto più in fretta potei”.

La chiusa è ormai leggenda, e non resta che riportarla senza commento: Tra i brandelli di nebbia un chiarore scialbo veniva da una vetrina del Florian, una vetrina alta e liscia, ancora discretamente illuminata e non coperta dalle assi. Mi avvicinai e guardai dentro. Lì dentro era l’anno 195?. Sui divani di panno rosso, intorno a un piccolo tavolo di marmo tutto occupato da un cremlino di bicchieri e teiere, era seduto Wystan Auden, con il grande amore della sua vita, Chester Kallman, con Cecil Day Lewis e sua mogie, Stephen Spender e sua moglie: Wystan stava raccontando una storia divertente, e tutti ridevano. Nel mezzo del racconto, (…) Chester si alzò (…). «Guardai Wystan» mi raccontò a distanza di tempo Stephen Spender. «Continuava a ridere, ma negli occhi gli era spuntata una lacrima» … Per me, a questo punto, la vetrina si era oscurata. Re Nebbia entrò al galoppo nella piazza, tirò le redini del suo stallone e cominciò a sciogliere il suo grande turbante bianco”.

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Gli ultimi versi dedicati Venezia, datati “autunno 1995”, fissano Dal vero scene conosciute, amate, trasformate una volta di più in canto di nostalgia. Il cielo smerlato dal suono dalle campane:

I rintocchi del campanile
Che ha messo radici nel cielo veneziano
frutti che cadono senza toccare
Il suolo.
L’aria e l’aroma di una calle:
…in un vicolo del paradiso
Terrestre io sto di sera, e aspiro
(…) l’aria autunno-invernale,
rosa per i tetti di mattoni – l’aria locale
di cui non puoi saziarti

E infine l’acqua che tocca la riva d’acqua di un palazzo:

Gualcita come una banconota,
con il suo azzurro taglio l’onda
lecca i gradini del palazzo
ricevendo come resto un mattone
bruno… (Poesie italiane).

Come la prima sera “in terra straniera”, diciassette anni prima, nel 1973.

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Quando Brodskij capisce che i problemi cardaci di cui soffre da sempre non lasciano più illusioni, che non c’è più molto tempo, esprime il desiderio di essere sepolto a Venezia. Oggi è a San Michele: “I poeti ritornano sempre – scriveva a Brežnev alla vigilia della sua espulsione dalla Russia – in carne o sulla carta. Voglio credere che ambedue siano possibili”.  Per Venezia, questo ritorno gli è riuscito.

Paola Tonussi

*Per gentile concessione dell’autrice e dell’editore si riproduce in parte e in anteprima il servizio di Paolo Tonussi, “Brodskij a Venezia”, pubblicato sull’ultimo numero di “Studi Cattolici” (Luglio/Agosto 2020)

 

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