27 Giugno 2020

“Arrivo a una specie di estasi, di rapimento che mi porta lontano dal reale”. La conquista del K2, l’eroismo di Walter Bonatti

“Lino! Achille! Dove siete? Dove avete piantato la tenda?”. La voce forte, angosciata, di Walter Bonatti raggiunge Lacedelli e Compagnoni che non sembrano poi così lontani da lui, sono a portata di voce. “Seguite le piste!” è la loro risposta calma e rassicurante. Il campo è allestito molto in quota. Come fa Bonatti a raggiungere i due alpinisti prima che faccia buio? È il 31 luglio 1954, gli alpinisti italiani Compagnoni e Lacedelli conquistano il K2, la seconda montagna più alta del mondo, nella spedizione sostenuta dal CAI, Club Alpino Italiano e da CNR, Consiglio Nazionale delle Ricerche, guidata da Ardito Desio. Walter Bonatti ha 24 anni (era nato a Bergamo, il 22 giugno 1930) e consegna ai posteri una bruciante sconfitta, viene accusato di tentato tradimento e persino di sabotaggio. La sua versione dei fatti cancellata con un tratto di gomma, occultata, sepolta sotto la neve di quella ufficiale. Fu accusato di aver usato per sé l’ossigeno destinato ai due alpinisti. Ma che cosa si cela dietro quella contrastata vittoria della celebre coppia di alpinisti?

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Per ritrovare, in questi giorni, l’eroismo perduto, riprendo tra le mani K2 la verità storia di un caso (nell’edizione BUR) di Walter Bonatti insieme a La conquista del K2 seconda cima del mondo, di Ardito Desio (nella versione di Garzanti, edita nel 1954, una vecchia copia rilegata in cartone blu cobalto che ho sottratto alla libreria di mio padre). Il raffronto tra le due voci, fra i due mostri dell’alpinismo è interessante. La prosa ariosa e appassionata di Bonatti non teme confronti: Ardito Desio è geografico, controllato, gelido. Come il suo volto, il naso aquilino, lo sguardo fiero. Una noia per chi non scala montagne, come me. Forse si potrebbe spiare già dalla grana della prosa il temperamento dei due. Ma che cosa è successo davvero in vetta?

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Ecco la premessa alla spedizione (scrive Bonatti): “Dopo le vittorie himalayane dell’alpinismo francese, inglese, svizzero, tedesco e austriaco anche l’Italia finalmente si lanciava verso la conquista di un colosso della Terra: il K2, la seconda montagna del mondo con i suoi 8611 metri di altezza (da poco rettificati a 8616). Era l’estate 1954. L’assedio alla grande montagna del Karakorum durò due mesi, vissuti per la maggior parte in un clima di tensione, che se raggiunse il suo apice di drammaticità con la morte di uno di noi, Mario Puchoz, non si allentò neanche dopo, quando cominciò l’implacabile maltempo monsonico. Per me giunse poi, quale conclusione, il duro bivacco del 31 luglio a oltre 8100 metri di quota”.

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L’assalto alla vetta è invece l’ottavo capitolo del libro di Ardito Desio, una relazione scritta a quattro mani da Achille Compagnoni e Lino Lacedelli che corrisponde, per molto tempo, alla versione ufficiale della spedizione. Una versione ferocemente confutata da Bonatti. Leggiamo. “Il giorno 30 luglio, partiti dal campo numero otto, a circa 7740 m, noi due salimmo a piantare il cosiddetto 9° campo: in realtà una leggerissima tendina. Fu un osso duro per un muro di ghiaccio che ci costò vari tentativi e poi una traversata su di una serie di placche insidiosissime. (…) Si cercò di portarci più in alto possibile, fin sotto la barriera di rocce che taglia l’ultimo tratto della parete est e rappresentava la più grave incognita”. Ma la vexata quaestio sta anche qui: si era stabilito che Abram, Bonatti e uno degli hunza avrebbero raggiunto i due alpinisti con le bombole d’ossigeno per l’attacco decisivo alla vetta. Ma dove si trova la tendina? Bonatti stranamente non la trova, segue faticosamente la fila di orme interrotte qua e là sopra il pendio. Sulle spalle Bonatti e il suo compagno sherpa portano sulle spalle diciannove chili di bombole piene di ossigeno, indispensabili per conquistare la vetta. Ma sull’episodio cala una fitta coltre di nebbia, di incomprensione. Ormai è calato il sole e inizia a fare freddo. “Mai come in questo momento avverto la forza del K2 e di tutto l’Himalaya che mi circonda. Da una ventina di giorni vivo nella zona della morte, ma soltanto adesso sento che l’incantesimo degli ottomila metri sta impadronendosi di me. Credo di aver paura – scrive Bonatti –, di sensazione in sensazione arrivo a una specie di estasi, di rapimento che mi porta lontano dal reale e da tutto ciò che è puramente fisico. Uno stato di coscienza mai provato prima d’ora”.

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Bonatti continua a chiamarli, il gelo si fa più intenso, pungente: “Lino! Achille! Dove siete? Rispondete!”. È distrutto sotto quel maledetto peso delle bombole d’ossigeno che potrebbe al contempo essere, in quel preciso momento, il miglior conforto. A quel preziosissimo elemento, così leggero eppure così pesante, all’ossigeno che schiaccia sulla schiena sta idealmente sospesa la spedizione, il suo eventuale esito felice. Mahdi, il compagno di Bonatti, grida ora come un ossesso. Le parole gli escono di bocca convulse. Si fa buio e, con la notte, il freddo diventa feroce, crudele. Poi, nella disperazione, improvvisamente il segno. Una voce. Una luce, nella notte del profondo silenzio. “Ed ecco, incredibile, nel profondo silenzio, sulla dorsale che finisce sotto la fascia rocciosa e poco più in quota rispetto a noi, si accende una luce. «Lino! Achille! Siamo qui! Perché soltanto ora vi fate vivi?» Con voce ben distinta e cruda Lacedelli si giustifica, con queste precise parole: «Non vorrai che stiamo fuori tutta la notte a gelare per te!». Non voglio prendere sul serio questa sua grezza uscita, uno dei primi effetti che produce la rarefazione dell’aria è lo stordimento e l’irascibilità. In fondo, penso, anch’io poco fa mi sono scagliato contro di loro insultandoli, maledicendoli e anche minacciandoli. «Avete l’ossigeno?» riprende la voce. «Sì!» rispondo. «Bene, lasciatelo lì e scendete subito!» «Non posso» obietto, «Mahdi non ce la fa!»”. Infatti lo sherpa iniziava a uscire di senno e, a tentoni, tentava di incamminarsi verso la luce della esile tenda.

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Invano Bonatti attende ancora la voce dei compagni. Nessuna risposta. “Come un marchio di fuoco sento che qualcosa di grave si sta imprimendo nel mio animo”. La sensazione nel cuore di Bonatti è quella di abbandono. Si trova tre caramelle in tasca. Ma i due, stremati, sono costretti a sputarle, non hanno più un filo di saliva in bocca. Sono costretti a un bivacco di fortuna, nel mezzo, nel cuore dell’ampio canalone, imprigionati, inghiottiti nella morsa del ghiaccio. Costeggiano le piaghe glaciali della morte. “Nelle valli si addensano sempre più compatte le nebbie, che inghiottono la montagna sino a un’altezza di oltre 7500 metri. È uno spettacolo grandioso. Tutte le cime più alte del Karakorum, che l’occhio riesce ad abbracciare, sembrano uscire d’incanto da un mare di latte. Proprio qui di fronte c’è la vetta dello Skyang-Kangri, a destra la mole del Broad Peak, e più lontano le cime dei Gasherbrum. Il K2 domina questi colossi, e io… sono proprio quassù”. Davanti a tanta bellezza, l’ombra della miseria umana, e dell’infamia si imprime nell’animo di Bonatti. Perché Lacedelli e Compagnoni non li aiutano? Non offrono loro riparo per la notte? Lo schiaffo di non ricevere l’aiuto si aggiunge alla terribile bufera di neve che si abbatte in quella tremenda notte, sul K2. Sopravvivere alla notte sugli ottomila significa lottare ognuno con le proprie forze. Con il proprio animo. Eppure riescono miracolosamente a vivere, a sopravvivere.

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Si fa giorno. Lo sherpa, ormai brancolante e allucinato, nonostante i diversi tentativi di Bonatti di dissuaderlo, decide di scendere verso l’ottavo campo. Le bombole dell’ossigeno rimangono lì, correlativo oggettivo della salvezza e della vittoria, abbandonate, lasciate lassù con un gesto estremo di fiducia e generosità. Per permettere al destino di un altro di compiersi. E quello stesso ossigeno sarà indispensabile per Lacedelli e Compagnoni per portare a termine l’impresa, per cingersi il capo dell’alloro ghiacciato della conquista italiana del K2. Ma qual è la loro verità? Leggo dal libro di Desio: “Ci raggiungeranno prima che venga buio? Purtroppo no. Il sole scende dietro la cresta del K2 e i tre compagni sono ancora parecchio indietro. Tra poco Abram scenderà da solo al campo 8°, Bonatti e Mahdi invece dovrebbero raggiungerci e passare la notte con noi. Ma quando calano le ombre, Bonatti e l’hunza Mahdi non sono ancora arrivati all’inizio della pericolosa traversata delle placche. E col buio avventurarsi per quelle rocce infami sarebbe una specie di suicidio. All’imbrunire sentiamo delle grida. Subito usciamo dalla tenda. Bonatti e Mahdi non si vedono perché l’aria si è già fatta scura. Ma ci arrivano le voci. Purtroppo il nostro è un dialogo estremamente incerto perché il vento disperde le parole. Lacedelli finalmente crede di aver capito: ha l’impressione che a chiamare sia Bonatti il quale dice di potersi arrangiare da solo; Mahdi invece vuole scendere. «Torna indietro,» gli gridiamo allora. «Torna indietro! Lascia i respiratori. Non venire più avanti.» Non ci passa neppure per la mente che i due possano pensare di passare la notte a quell’altezza senza una tenda né sacco da bivacco. Ma la voce di Bonatti adesso tace: evidentemente, noi pensiamo, se ne è già sceso a basso. Guai se al buio tentasse di raggiungerci. Sulle placche succederebbe di sicuro una disgrazia”. Di fronte alle accuse di Bonatti, addirittura Compagnoni sostiene: “forse stava meglio lui in una buca che noi in una tendina leggerissima”. Persino Buzzati aveva speso parole sulla conquista italiana del K2: “Da parecchi anni gli italiani non avevano avuto una notizia così bella. Perfino chi aveva dimenticato che cosa sia l’amor di patria, tutti noi al lieto annuncio, abbiamo sentito qualcosa a cui si era persa l’abitudine, una commozione, un palpito, una contentezza disinteressata e pura”.

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Finalmente una gloria italiana. Ma a quale prezzo? E con quale eroismo? La vetta del K2 viene espugnata alle 18 del 31 luglio 1954 e a lei sono legati per sempre i nomi di Lacedelli e Compagnoni che affermano di aver raggiunto 8617 metri, dagli 8400 in poi senza ossigeno. Eppure senza sbarazzarsi dell’ossigeno. Ma perché mentire? Perché Compagnoni e Lacedelli hanno celato, per tanti anni, la verità su quella terribile notte? La loro conquista sarebbe stata offuscata, meno autentica? Forse, semplicemente, più umana. Solo 54 anni dopo, il Cai ha riconosciuto la “scomoda verità” di Walter Bonatti. La tendina sottilissima era stata spostata “arbitrariamente” e la conquista del K2 è stata possibile solo grazie all’ossigeno portato da Bonatti, costretto a rischiare la vita dentro un gelido bivacco di fortuna. Ma quanto vale il risarcimento successivo a sanare la piaga di una schiacciante ingiustizia? Le montagne sono maestri muti che fanno discepoli silenziosi, diceva Goethe. Ma il silenzio che cela la menzogna si sgretola, si scioglie come neve al sole. Mentre il discepolo soccombe, nella sua miseria umana, di fronte alla grandezza del maestro.

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Le immagini di Compagnoni con la maschera dell’ossigeno è stata misteriosamente esclusa dalla documentazione ufficiale della spedizione di Ardito Desio. Ma si trova stampata, in bianco e nero, nel mezzo del libro di Bonatti. Cerco di guardarla con distacco, ma è impossibile non arrendersi all’evidenza. Perché hanno mentito? Ora che tutti gli alpinisti protagonisti della eroica spedizione non ci sono più, sono scomparsi per sempre (Lacedelli e Compagnoni curiosamente nello stesso anno, il 2009, Bonatti sopravvive fino al 2011) testimoni oculari, nelle loro contrastate (e confutate) versioni, resta l’avventura umana da decifrare. Forse è solo colpa dell’altezza. O è soltanto il destino di sopravvivere. E quello di rischiare di morire, in un bivacco sotto la tempesta di neve senza ossigeno. Con pesantissime bombole d’ossigeno da custodire, proteggere per donarle ad altri. Per permettere a un altro di sopravvivere, vincere la vetta, cingersi il capo d’alloro. Chi sarebbe disposto a questo eroismo, oggi?

Linda Terziroli

*In copertina: Walter Bonatti nel 1954, sul K2, ha 24 anni, il più giovane della spedizione italiana

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