Che storia pazzesca quella del 75enne Rodriguez. Bella, drammatica, potente, romantica, beffarda ed eroica come solo la vita può saperla rappresentare quando si trova di fronte a un uomo fuori dall’ordinario. Ed è anche una storia di un’attualità disarmante. L’ha raccontato nel 2012, con magistrale sapienza, il regista svedese Malik Bendjelloul – purtroppo suicidatosi due anni dopo, a 37 anni – nel docu-film “Searching for Sugar Man”, premiato con una vagonata di premi, compresi quelli del Sundance Film Festival e dell’Oscar 2013 come miglior documentario. All’anagrafe il nostro eroe si chiama Sixto Diaz Rodriguez. A Detroit, dov’è nato il 10 luglio 1942 e dove ha quasi sempre fatto un misto tra il muratore e il facchino, lo conoscono anche come Jesus mentre per i suoi fan è semplicemente Rodriguez o, appunto, Sugar Man. Rodriguez ha dei fan perché è un cantautore rock-folk alla Bob Dylan. Con la particolarità che “Bob Dylan non vale niente al suo confronto”. A dirlo è Clarence Avant, un uomo che ha fatto la storia dell’industria musicale americana e suo produttore nei due album del 1970 e 71, “Cold Fact” (che contiene anche la canzone “Sugar Man”) e “Coming from Reality”. Album meravigliosi. Per voce, testi impegnati, musiche e arrangiamenti, moderni anche oggi. Con un problema fondamentale. “In tutto – continua Clarence Avant – avranno venduto sei copie, probabilmente comprate dalla mia famiglia”. Perciò “ciaone”. Per campare Rodriguez ha fatto il tuttofare nell’edilizia nei sobborghi poveri di Detroit, con una dignità e un aplomb fuori dal comune (spesso lavorava in completo, cravatta compresa). Però, in realtà, qualche fan Rodriguez lo aveva, e i suoi dischi sono arrivati in Australia e Nuova Zelanda ma è in Sudafrica che diventa leggenda, il simbolo della protesta di quegli anni vergognosi tra apartheid, violenza e censura. In Sudafrica i suoi due dischi vengono ristampati e vendono almeno mezzo milione di copie e con i bootleg si supera il milione. Tutto a sua insaputa, che continua a portare su e giù dalle scale dei palazzoni di Detroit dei frigoriferi sulla schiena. E là, in Sudafrica, pensavano che Rodriguez fosse morto giovane, tipo Jimi Hendrix, ma con qualche dubbio. Così, nel 1997, grazie al fan Stephen “Sugar” Segerman e a un altro manipolo di irriducibili, lo trovano e lo riportano a “casa”, nella sua casa artistica, in Sudafrica, organizzando una tournée “sold out”. E vederlo arrivare a Città del Capo con le figlie e la chitarra, senza band – i ragazzi che avrebbero dovuto aprire il concerto diventano il suo gruppo – e salire sul palco di fronte a 20mila persone che saltano e piangono e lui che è a suo agio come se in tutti questi anni non fosse stato in esilio da se stesso, fa commuovere fino alle lacrime e credere che il mondo possa diventare davvero meglio di così. Non aggiungo altro, perché se non avete visto “Searching for Sugar Man”, dovete mollare tutto e guardarlo prima possibile (con un pensiero anche per Malik, il regista, pace all’anima sua). Dopo il documentario, la vita di Rodriguez non è cambiata ma il successo è arrivato anche negli USA e in Australia. Invece perché è una storia di un’attualità disarmante? Perché tra diritti spariti chissà dove e dischi – e discografici – pirati, il suo talento, la sua professionalità, non è stata mai pagata. Come oggi, per la maggioranza di chi esercita il proprio talento in una professione qualsiasi, quasi gratis.
Michele Mengoli
www.mengoli.it