03 Aprile 2020

“Tutti gli uomini del presidente” è un film meraviglioso e Ben Bradlee è il giornalista più figo della storia, la carogna che ha sfidato il potere

“Sto coi miei ragazzi”: lo scrive a penna su un foglietto e questa è la sua risposta, inappellabile, e io, al di là dello schermo, ogni volta che lo guardo mi commuovo, di più, piango come una fontana, cerco i fazzoletti, e se lo vedo insieme a qualcuno cerco di frenarmi, mi trattengo ma a stento, per non essere derisa, perché lo so, e mi vergogno: lo so, che a questo punto de Tutti gli uomini del presidente c’è un caz*o da commuoversi, siamo alla scena la più combattiva, quella a fine riunione, e cosa mandare in pagina è deciso, e però Benjamin C. Bradlee, direttore del Washington Post, deve rispondere alla stampa rivale, feroce che i suoi Woodward e Bernstein hanno sbagliato, e l’hanno sparata grossa, troppo grossa. Ma Ben Bradlee, che è fuori di sé, per lo smacco, la disattenzione, l’errore innegabile, non si smuove, non arretra. Sta coi suoi. E qui siamo nemmeno alla punta dell’iceberg di quello che è lo scandalo Watergate, la fine ignominiosa di Richard Nixon, il trionfo della stampa ma quando è fatta bene, e quando chi la guida ha il coraggio, sommato all’incoscienza, di mettersi contro. Contro la Casa Bianca e quindi contro il potere, compreso quel potere di cui tu da direttore di giornale godi e l’agio che te ne deriva: Ben Bradlee, quante volte l’ha fatto, quante volte ha avuto la sfrontatezza di mettersi contro. Smazzando, vincendo, perdendo, e pagando carissime le sconfitte, risalendo, arrendendosi mai. Se vuoi continuare a leggermi, ti avverto, io sono di parte, innamorata persa, di Bradlee, e incurante dei suoi abbagli, vanaglorie, gratuite teatralità.

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Uscì negli USA il 4 aprile di 44 anni fa Tutti gli uomini del presidente, film avvincente, film che non trovo invecchiato di un giorno, nonostante l’assenza di web, smartphone, e di tutto ciò che fa il giornalismo odierno. Film che racconta l’impresa di Bob Woodward e Carl Bernstein, i due giornalisti che scoprirono e denunciarono la piramide di intrallazzi i più illeciti voluti da Nixon in persona per far politicamente fuori chiunque gli desse il minimo fastidio. E film che narra anche l’uomo il più affascinante che il giornalismo abbia conosciuto, come pure il più str*nzo, e carogna: Ben Bradlee. Un uomo di cui ti puoi solo innamorare, e non solo perché – almeno ai miei occhi – era un gran figo, ma per il carattere, la fermezza, la voglia di capire. Disposto a sacrificare tutto sull’altare delle notizie, non ci sarebbe stato nessun Watergate senza l’irremovibilità di Bradlee: una aggressività, una tenacia, e un caratteraccio che trovi intatti in Jason Robards che nel film di Alan J. Pakula lo recita, e non certo in Tom Hanks che è Bradlee ne Il Post di Steven Spielberg del 2017. E pensare che Pakula, all’inizio, non voleva Robards, e gli sembrava fiacco per incarnare un temperamento simile. Mai scelta fu invece più felice, Dio se Robards qui non è Bradlee e in ogni cosa, fin come cammina, stende le gambe sul tavolo, come parla, afferra i fogli. In ogni gesto, sguardo che fa. E tutto questo perché Robert Redford si era a tal punto incaponito contro Nixon e le sue sozzure che tanto insiste e tanto preme sui veri Woodward e Bernstein perché racchiudessero la loro inchiesta ancora calda in un libro che, appena è pubblicato, Redford ne compra i diritti, si prende per sé il personaggio di Woodward, mette Pakula alla regia, William Goldman alla sceneggiatura, e si danna per trovare a chi dare il ruolo di Bernstein. Si danna fino allo stremo, ché Pakula lo avverte che chiunque sarà dovrà recitarci in ogni scena, dovranno stare sempre attaccati, uno di fianco all’altro, come poi si vede nel film. Sempre insieme, per semplificata ma fattiva scelta narrativa, affinché il pubblico si fissi subito in mente, e lì gli rimanga, l’affiatamento umano e professionale (e la paura) del duo Woodward-Bernstein. Una domenica Redford è allo stadio e vede sugli spalti Dustin Hoffman. È la svolta. Ché Hoffman, lo scattoso Hoffman, è un Bernstein perfetto. Redford all’intervallo lo avvicina, glielo sussurra, e Hoffman risponde sì, all’istante, come fosse ovvio, lui sarà Bernstein ma a una condizione: che lo lasci terminare di vedere la partita in pace.

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Redford, Hoffman, Robards si mettono alle calcagna dei tre giornalisti che devono interpretare, ma alle calcagna sul serio: per settimane li seguono, sul lavoro, e gli ‘prendono’ tutto: se la loro interpretazione sullo schermo risulta così convincente è perché di Woodward, Bernstein, Bradlee, i tre imparano i gesti i più naturali, come fumano, bevono il caffè, e ne rubano i tic, le espressioni, il modo di sedersi, guidare, di ridere. Ogni loro mossa viene riprodotta su pellicola. A film finito, sullo schermo, è tutto talmente veritiero e ben riuscito che la produzione dimentica i dissapori, se non le vere litigate, che vi furono col Washington Post all’assoluto suo diniego di cedere, di notte, l’uso della vera redazione a mo’ di set. La sede del Post è riprodotta negli studios nei più piccoli particolari (tranne gli articoli di cancelleria, ‘generosamente’ offerti dal quotidiano). Ma l’uscita de Tutti gli uomini del presidente segna la fine del sodalizio Woodward-Bernstein, e dell’armonia nella redazione del Post. Proprio il successo del film causa e fomenta gelosie, odi, ripicche, tra chi nel film ha avuto più spazio, chi meno, chi nullo. Woodward farà carriera dentro il Post, Bernstein se ne andrà perso tra alcolismo e un matrimonio turbolento, la stella di Bradlee brillerà fino ad appannarsi, nel 1981, per quel reportage sull’eroina, inventato, e quel Pulitzer dato alla giornalista mitomane che l’ha firmato, prontamente restituito da un Bradlee che dal suo ufficio di vetro, per ira, vergogna, di sé, e del falso pubblicato, si dimette dal Washington Post. Dimissioni respinte, ma per lui onta impossibile da sbollire, e al diavolo gli altri 23, intoccabili Pulitzer vinti sotto la sua guida, ambizione, furia.

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Insegna Ben Bradlee: “Nessun articolo contiene la Verità. La verità è un processo. Giornalisti, siate ambiziosi, scrupolosi, e non prendetevi troppo sul serio. Divertite il lettore. Io, da buon direttore, mi devo scegliere l’editore giusto. Se l’editore è un fesso, nessuno ce la fa”.

Barbara Costa

Gruppo MAGOG