Era il 1809, Vienna veniva invasa dalle truppe francesi e mentre la corte e la nobiltà trovava rifugio nei castelli ungheresi Ludwig van Beethoven restava in città, nella cantina del fratello, con la testa fra i cuscini per non sentire le cannonate che gli tormentavano le orecchie malate. In quello stesso anno annoterà un’ode: «Ciò che è libero da qualsiasi passione e desiderio, ciò è Potenza. Lui solo. Nessuno è più grande di lui. [Brahma], il suo spirito basta a se stesso. Egli, il Potente, è presente in ogni parte dello spazio […] Tu sei il sostegno di tutte le cose. Sole, etere, Brahma». Visione riposta insieme ad alcune lettere nel suo scrittoio realizzato in radica di noce. L’unico mobile perennemente invaso da partiture, appunti, libri che l’autore portava con sé durante i suoi trasferimenti viennesi. Si tratta di un commento molto sentito al Rigveda, il “Veda degli Inni”, uno dei testi fondamentali della metafisica induista. A duecentocinquanta anni dalla nascita di Beethoven quelle parole esprimono un avanzamento verso una meta irraggiungibile designata dalla Natura. Il salto dal reale nel “pensiero magico” è il nuovo comportamento che Beethoven propone al musicista del futuro.
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Che avresti mai pensato, nostro diletto Ludwig, se avessi saputo che la tua opera interpretata da Liszt e da lui trascritta (nove sinfonie di Beethoven S.464) più nobile frutto del tuo amore e della tua fede in ogni forma di vita inviolabile che popola questa terra, sarebbe stata distorta e usata da uomini assetati di denaro? Di certo Franz Liszt aveva faticato moltissimo per far conoscere l’arte di un profeta della ribellione a quelle creature asservite ai superbi duchi che non avevano un’orchestra privata pronta a suonare per loro. L’arte è magia vivida, libera dalla menzogna dell’essere verità. Dagli antichi scrittori alchimisti, dai mistici, Beethoven aveva appreso l’immaginazione come prima emanazione della divinità, traendo una conclusione: la consonanza con tutti gli esseri viventi, con gli animali e la Natura che le arti immaginative risvegliano, ci separano dalla mortalità con l’immortalità della bellezza e ci vincolano aprendo le porte segrete di tutti i cuori. «Tutto ciò che vive è santo e non c’è niente di sacrilego tranne le cose che non vivono» ecco il mistero, trasfigurato nella visione di William Bulter Yates per William Blake (Magia, Adelphi 2019). Ci sono rivoluzioni che non hanno bisogno di fucili e sono quelle che penetrano negli uomini. Con un’opera come l’Eroica, il più grande rivoluzionario della storia della musica romantica, celebra una sorta di speranza, una forza; immagina una società nuova e all’epoca impensabile; e allo stesso tempo mette una bomba nelle strutture della musica tonale. Per non parlare dei suoi famosi ultimi quartetti: quasi ineseguibili all’epoca, restano una traccia fondamentale della nostra civiltà.
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Non credo ai secoli, mi fanno ridere. Sono delle convenzioni: ci avviciniamo ad un’altra cultura e troviamo un calendario completamente diverso. È soltanto il contesto a dare una ragione alla musica, alle arti, ed è per questo che esse resistono al tempo. Torna in mente la stagione di Parigi del 1913 quando i “Balletti russi” diretti da Sergej Diaghilev inaugurarono il Théâtre des Champs-Élysées. Il Sacre du printemps composta da Igor Stravinskij andò in scena la sera del 28 maggio. Dello “scandalo” che provocò se ne parlò troppo. Oggi l’opera ha una funzione diversa che aveva quando apparve e questo potrebbe insegnarci cosa sia lo “scandalo”. La pluralità dei sensi possibili aiuta ogni linguaggio artistico a superare le tappe. Un meccanismo, però, resta attuale nel mercato dell’arte: ridurre tutto ad un valore economico o di effimera visibilità. È nel passato il futuro. Lo sapeva bene Stravinskij, svilito dalla brama di un cronista magniloquente: «Mi chiese un’intervista che gli accordai con piacere. Purtroppo la fece apparire sotto forma di una dichiarazione sul Sacre ingenua. Una tale deformazione delle mie parole mi addolorò molto, anche perché lo scandalo del Sacre aveva contribuito ad aumentare le vendite del foglio e tutti consideravano autentica la dichiarazione […] Caddi seriamente ammalato di una febbre tifoide che mi costrinse a rimanere sei settimane in clinica.» (Cronache della mia vita, Feltrinelli 2013). Il mercato resta una forza davvero imponente per certi aspetti e pericolosa per altri, tanto da surclassare valori che dovrebbero essere presenti. Ma non c’è spazio per una malinconia che contempla macerie. Bisogna trovare una strada attraverso di esse. Giorgio Gaslini nel suo libro Musica Totale (Feltrinelli 1975) proclamava: «Il musicista non è più spettatore o agente superfluo […] Il suo essere e il suo divenire sono una vera necessità storica». Suona dunque nelle fabbriche occupate, nel famoso ospedale psichiatrico di Trieste condividendo l’idea di Franco Basaglia dei manicomi aperti, all’interno di scuole ed atenei, in occasioni di manifestazioni e nei più importanti festival jazz italiani ed internazionali. Non si può concepire una società senza musica, arte, poesia, priva di quella dimensione utopica così importante nella vita. Ecco perché l’artista che crea opere indimenticabili costituisce una presenza essenziale nella vita sociale. Nel nostro ordinamento esiste la legge Bacchelli che tutela in piccola parte gli artisti viventi, ma un artista è patrimonio da vivo. L’artista vivente va quindi sostenuto e protetto prima di tutto garantendo una casa, il luogo dove lavora. Non bisogna dimenticare che ogni artista è tutte le potenziali opere che in condizioni di vita e di lavoro adeguate potrà produrre.
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La nostra società necessita di una verità morale che sia accecante, inclusiva. E invece sotto i nostri occhi continua a spalancarsi una piaga: siamo testimoni di un grande male che continua a prodursi, e per prima cosa siamo tenuti a precisare in che misura ne siamo partecipi. Questo bisogno sempre di calcare la mano nella ferocia e nell’assurdo. «Uomini civili, anzi superiori, accorrono ad assistere alla morte straziante del maiale (vero essere sudicio!). Facciamo ciò com’è giusto, sulle nazioni inferiori, da parte dell’unica nazione superiore esistente. Nazione non di assassini (o di ladri di vita) Davvero? Ho i miei dubbi […] Insegnerei poi nelle scuole cos’è veramente (nei suoi lati immondi) il celeste impero umano e com’è notturna, ma sacra, dolorosa ma spesso così dolce, l’oscura e umile nazione degli animali». Scriveva Anna Maria Ortese (Le piccole Persone, Adelphi, 2016). Al mondo non vi è nulla di rigido, nulla che viva per sé solo. Queste mie parole invocano la magia di cui è dotato lo sguardo che erompe dall’anima di voi Artisti, Poeti. Siamo pronti ad amarvi come un fiore raccolto ai margini del minimo esistenziale nel quale ci troviamo: pochissimi eletti, siete un fiore esplosivo, meraviglioso, feroce, implacabile che deve continuare ad insegnarci la rivoluzione della bellezza mille miglia lontana dal seme dell’odio.
Maria Giovanna Barletta