13 Gennaio 2020

“Mai amato nessuno. Eccetto che in sogno, ed erano bestie, le bestie dei sogni”. Speleologia dentro Samuel Beckett

Lo sketch ha qualcosa di liturgico – di kafkiano. Samuel Beckett bamboleggia tra Proust – sui cui nel 1931 pubblica un celebra saggio –, Joyce, di cui diventa esegeta e segretario – screditando le attenzioni della di lui figlia, la furibonda Lucia – e Dante (del 1932 è il racconto Dante and the Lobster). Cerca una via sicura nella letteratura – sta allestendo la raccolta More Picks Than Kicks –, ha da poco compiuto 27 anni, gli muore il padre. “Eravamo tutti con lui. Quando è finita, lui era molto bello. Ho temuto che mia madre crollasse, ma è stata ed è meravigliosa. Ora la casa è molto vuota e muta”. La morte muta i vivi, dona splendore ai morti. Poi scrive, all’amico Thomas McGreevy, è il 2 luglio 1933, “Aveva sessantun anni compiuti, ma sembrava più giovane, e lo era. Ha scherzato e imprecato contro i medici finché ha avuto fiato. Era a letto con la faccia coperta di piselli odorosi, giurando e spergiurando che una volta guarito non avrebbe fatto più un bel niente. Sarebbe salito con la macchina fino in cima a Howth e si sarebbe sdraiato tra le felci a scoreggiare. Le sue ultime parole sono state «Combatti combatti combatti» e «Che mattina»”. Dopo lo sketch, la rivelazione: “Non posso scrivere di lui. Posso solo seguirlo a piedi tra i campi e oltre i fossati”. Ecco, il carisma dell’opera di Beckett: inseguire i morti, a piedi – anche a quattro zampe se è il caso – tra i campi, al di là dei fossati, al di là di ogni al di là.

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La morte del padre in ogni caso è sempre l’episodio determinante. Come il primo assalto, l’offesa, la ferita, il duello improvviso. Nel 1929 Beckett conosce Suzanne Déchevaux-Dumesnil. Più grande di sei anni, severa, di sinistra, pianista. S’incontrano, definitivamente, nove anni dopo – dopo che lui, con silenziosa malizia, si fa preda dell’estro di Peggy Guggenheim. Beckett è preso d’assalto, per strada, di notte, il 6 gennaio 1938, a Parigi, da uno sconosciuto. Questi i fatti secondo il “The Irish Times”. “Mr Beckett, aggredito e ferito vicino al cuore, è stato portato in ospedale in gravi condizioni… Mr Beckett stava accompagnando a casa alcuni amici quando è stato infastidito da un senzatetto. All’invito ad andarsene, il barbone avrebbe dato un calcio a Mr Beckett e ci sarebbe stata una colluttazione. Quando Mr Beckett è entrato nell’appartamento del suo amico, si è aperto il soprabito e ha trovato del sangue che gli colava da una ferita”. Secondo altre fonti, non si trattava di un barbone: quello che gli ha appioppato una coltellata è un “pappone”. All’amico Thomas, il 12 gennaio, SB scrive: “La pleura è stata lesa, ma a quanto pare il polmone no. Prima ero in corsia, poi Joyce mi ha fatto spostare in una stanza singola. Sono stati tutti quanti di una gentilezza incredibile. Sono venuti mia madre, Frank e Jean. Fin dall’inizio ho pregato chiunque di fermarli. Sembra però che la cosa si sia risaputa al volo in tutta Dublino e sia stata orribilmente esagerata”. Joyce in ospedale con Beckett ferito al costato – scena teatrale. Al capezzale di SB c’è Suzanne. Non lo mollerà più. Sarà la sua compagna per la vita. Muore prima lei, il 17 luglio del 1989. Lui la segue, qualche mese dopo, il 22 dicembre. Dalla ferita inferta con il coltello, cola lo spirito del padre, Beckett comincia una nuova vita. Quell’anno, due mesi esatti dopo l’assalto, esce Murphy.

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Il desiderio dell’ultima parola non per vezzo, ma in virtù di deserto: spianare il gergo perché un altro lo coltivi. Beckett – perfino fisicamente: un ragazzo che eccelle nello sport, e poi, drasticamente, un uomo minato, corroso dai mali – s’incarica della tradizione, gesticola verbi, fino al punto dove non c’è distanza tra fiore e clangore, tra pietra e bacio, tra piantare e sradicare. In uno dei suoi libri più ispirati, passato in Italia come Rovinare le sacre verità (Garzanti, 1992), Harold Bloom riconosce in Beckett “il più forte degli autori in occidente, l’ultimo sopravvissuto di una sequela che comprende Proust, Kafka e Joyce”. Agli occhi di Bloom, in estasi gnostica, il mondo di Beckett postula che siano uno Creazione e Caduta. “Basilide o Valentino, eresiarchi alessandrini, avrebbero subito riconosciuto il mondo della trilogia o delle commedie più importanti: Aspettando Godot, Fine di partita, L’ultimo nastro di Krapp. È il mondo dominato dagli Arconti, il kenoma, il non-luogo di vuoto. La spiritualità enigmatica s’impegna nella ricerca (benché sporadica) di un vuoto che sia una pienezza, dell’abisso o pleroma che gli gnostici chiamavano sia antenato che antenata. Possiamo parlare di gnosticismo naturale piuttosto che rivelato nel caso di Beckett”.

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L’idea che Beckett sia maestro degli gnostici del II secolo mi affascina, lo ammetto, d’altronde la letteratura è nel senza tempo e i primi destinatari di ogni scritto sono i morti. Eppure, la pulizia di Beckett – che si esercita in groviglio verbale – è sapienza che ricavo in Giobbe: “Egli è flagello, uccide in un momento: ma si beffa della prova degl’innocenti… se egli ruina la cosa non può essere riedificata… toglie il senno a’ capi de’ popoli della terra, e gli fa andar vagando per luoghi diserti, ove non ha via alcuna. Vanno attentone per la tenebra, senza luce alcuna” (cito brandelli di Giobbe dalla traduzione, che mi sbilancia all’ode, di Giovanni Diodati). Deserto, cioè: diserzione dal letterario. Andare a tentoni, tentennando, nella pece del giorno, nella tenebra.

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Il regista Marco Carniti mi introduce in Beckett. A volte soffochi: come in una foresta di betulle, ti sembra di capire che l’anima è un osso, che il corpo è patto in parole, parolaio – e tu, è inevitabile, il frainteso.

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Di Beckett amo From an Abandoned Work. Il tentativo, dopo la trilogia, di tornare al romanzo. L’opera si arena, nel 1955, e diventa l’apice dell’abbandono – e questo abbandono, l’opera che abbandona lo scrittore, questa faglia di marmo su cui è abbozzato un viso, ti schiaccia. L’opera è pubblica nel 1958 – io l’ho nella traduzione Einaudi di Valerio Fantinel e Guido Neri, in Teste-morte. Quell’anno Beckett conosce Barbara Brey, vedova, due figli, 34 anni, lavoro in BBC. Sarà l’altra compagna per la vita. Suzanne – che sposa, in segreto, nel 1961 – è la moglie glaciale; Barbara, che si trasferisce a Parigi per essergli più vicino proprio nell’anno in cui SB si sposa, è il corpo, la confidente, la collaboratrice. “Era la sola persona con cui Beckett condividesse regolarmente gli esiti del suo lavoro. In ogni caso, lei si scherniva, ‘Non ho avuto alcuna influenza sulla natura della sua opera. Egli era unico, certo di sé, di quello che voleva dire’… La Bray fu tentata di scrivere un libro sulla sua relazione con Beckett, durata fino alla morte del grande drammaturgo: desistette. Diceva che erano insopportabili e superficiali i racconti che le donne facevano dei loro amori… Le 713 lettere che Beckett le ha scritto sono custodite al Trinity College di Dublino (lui ha distrutto tutta la sua corrispondenza)”, ha scritto Andrew Todd, celebrando la morte di Barbara, “traduttrice, critica, editor e compagna di Beckett”, accaduta nel marzo del 2010.

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Da un’opera abbandonata è un delirio, il deambulare verbale di un uomo che cerca i morti, che cerca il padre – “Ho ucciso io mio padre?”, “Ho mai ucciso qualcuno?”. Il verbo di Amleto sembra fondersi con quello del profeta Daniele: “una voce sognante continuamente bisbiglia intorno, che è qualcosa, la voce che una volta era sulle tue labbra”. L’uomo, che parla in prima persona, è ossessionato dal bianco, tutto è bianco ai suoi occhi, un cavallo, “mia madre bianca alla finestra” – “Il bianco, devo dire che il bianco mi ha sempre fatto una grande impressione, tutte le cose bianche, lenzuola, pareti e così via, anche i fiori, ma solo il bianco, l’idea del bianco e nient’altro” –, forse quest’uomo marcia nel limbo, il bianco lembo di nulla tra questo e l’altro mondo, è nel tonfo, nel mezzo, tra i vivi e i morti. La ricerca, screziando gli assurdi, è sapienziale: occorre il verbo che faccia apparire i morti, la parola che scombini la morte in vita. Il testo va letto sinotticamente al capitolo 42 di Moby Dick, che Melville dedica alla “Bianchezza della Balena”.

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Quel bianco, in Beckett, è una chiesa – sei tu, ora, a dover tracciare l’icona, quella che ti mangerà, appena terminata l’opera.

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La descrizione della fine come un luogo nel crisma del corpo: “Finito, finito, c’è un morbido angolo del mio cuore per tutto ciò che è finito, no, per tutto il finire, mi piace la parola, le parole sono state il mio solo amore, non molte d’altronde”. Se le cose esistesse, il potere della parola sarebbe irrisorio – la parola, questo brandire bramiti, coltiva l’assenza, evoca, ricama assonanze, fa risorgere l’assente, ammazza appena nomina. “Anche l’amore, spesso nei miei pensieri, da ragazzo in nulla simile agli altri ragazzi, non mi faceva dormire, trovavo. Mai amato nessuno, dovrei aggiungere. Eccetto che in sogno, ed erano bestie, le bestie dei sogni, nulla a che vedere con quelle che s’incontrano in campagna. Non potrei descriverle. Creature affascinanti, bianche il più delle volte”.

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Ecco come ha amato Beckett. Scavando – aveva viso d’aquila, d’altronde. Fino al cupo bianco dove di noi non resta che lo sfinito, l’animale che fummo. (d.b.)

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