03 Marzo 2021

Intervista a Enzo Barnabà, esperto di Sicilia, immigrazione, storie africane e biografo di Voronoff "che trapiantava testicoli di scimmia sugli uomini con l’obiettivo di rafforzare la sessualità"

Vengo a conoscere Enzo Barnabà per delle fissazioni comuni. Mi danno da leggere un suo articolo sul libraio milanese di Sciascia e quando ci parlo la prima volta al telefono, con piglio calmo, non malizioso, lui incomincia a fare pelo e contropelo allo scrittore ligure “seppellito  due kilometri dal punto in cui la sto chiamando”.

È Nico Orengo, il dittatore di TuttoLibri  tra anni Novanta e Duemila, l’incantatore, il seduttore di Giulio Einaudi. Autore di romanzi molto localisti sul Ponente ligure, tipo La curva del latte e lo spassionato, cinico L’intagliatore dei noccioli di pesca che è una radiografia romanzesca dell’editoria italiana all’altezza del 2004, vista dalla specola di un attrezzato professore “di provincia”. Un po’ quello che aveva fatto Busi in Vendita galline km 2 ma con Orengo c’è meno clamore, meno lisergia stilistica.

Enzo Barnabà è un uomo posato, un siciliano cauto che viene da Valguarnera, dal paese dello scrittore di storie mitiche, quel Francesco Lanza che Sciascia e Calvino riuscirono a recuperare con Einaudi (a proposito, quando si ristamperanno mai I mimi sicialiani di Lanza?).

Poi università negli anni della passione, Settanta e Ottanta, a Venezia, porto dorato e bizantino per chi ami la lingua, quindi la letteratura. Di qui il trasferimento in Liguria per le pascaliane ragioni del cuore.

Lui è Enzo Barnabà

“Ma lo sa che Orengo ha scritto un libro sulle elezioni regionali ambientandolo negli anni Cinquanta, quando invece esse furono indette per la prima volta nel 1972? E mi venivano a dire che anche Ariosto usava la fantasia, per giustificarlo”.

Barnabà vive sulla frontiera, in quella Liguria di Ponente che è stata lo scenario mentale dei romanzi di Nico Orengo ma che di fatto è un posto tragico, duro. Oggi la diaspora dei migranti di colore verso la Francia ha dato a quei posti un nome non fraintendibile: il passo della morte. Su questo punto il nostro ha scritto un libro, oltre che un saggio sull’eccidio ottocentesco di Aigues-Mortes del 1893 (Morte agli italiani! ha introduzione di un pezzo grosso, Alessandro Natta).

Quello che mi piace in Barnabà è forse questa sua spinta saggistica innestata e calata nel romanzo. Nascono da qui i suoi racconti storici sullo scienziato russo Voronoff che abitava in Riviera a fine Ottocento e faceva esperimenti micidiali (Il sogno dell’eterna giovinezza). Come pure la narrazione, in senso finalmente positivo, storico – non acqua fresca – del movimento dei Fasci siciliani (I Fasci siciliani a Valguarnera).

“Vede –  mi dice – non sono per la rilettura sempre e comunque ma a distanza di quarant’anni quando ho riletto I vecchi e i giovani di Pirandello ho rivisto tutto, all’epoca mi sembrava un reazionario che disprezzava quel sollevamento dal basso, popolare. Oggi riesco a valutarlo con più equilibrio. Forse anche ad apprezzarlo meglio…”

L’ho convocato per un’intervista anche perché mi ha incuriosito molto la sua figura, al di là della biobibliografia che comprende un libro scritto con un economista sui generis per i tipi prestigiosi della Bollati.

Chi volesse invece scoprire tutti i dettagli su Lanza, li trova sul sito curato da tempo da Barnabà.

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Raccontami la tua predilezione per Lanza? Nasce dalla vostra origine comune, da Valguarnera. A che punto è la sua fortuna critica? I suoi Mimi sono ancora un repertorio funzionale? Non ti sembrano un po’ trascurati in confronto alle Fiabe italiane di Calvino?

Vincenzo Consolo, lasciandosi prendere dall’entusiasmo, ebbe a scrivere “I Mimi di Lanza sono il più straordinario, singolare, originale libro del Novecento italiano”. Abitualmente, le storie letterarie parlano di lui come di  un minore. Leggendolo, vien voglia di chiedersi quale sia la frontiera che separa i minori dai maggiori. Credo che Elio Vittorini, non ancora ventenne, che lo incontrò nel 1928 (Lanza aveva trentun anni) abbia dato di lui la definizione più azzeccata: “Ho conosciuto un poeta”. Un animo poetico che traspare nella narrativa, nel teatro, nel giornalismo e, ben inteso, nella poesia.

Siamo nati nello stesso paese della Sicilia interna, Valguarnera, da famiglie che si conoscevano bene. Benché ci separi una generazione abbondante – e al di là della diversa statura letteraria –  siamo stati accomunati da alcune cose, quali lo spirito ribelle che ci spinge verso il popolo contro una borghesia che abbiamo abbandonato sbattendo la porta o l’amore per la nostra terra, un amore che ci è parso non abbastanza ricambiato. Il paese, per la sua struttura sociale ed economica rappresenta bene, inoltre, la Sicilia non urbana. I contadini dei Mimi sono valguarneresi, ma potrebbero essere di cento altri paesi; i miei Fasci siciliani a Valguarnera sono un lavoro di microstoria che ha l’ambizione di fornire una chiave di lettura a un fenomeno di ben più larga scala.

Lanza  morì nel 1933, a 35 anni. I necrologi furono numerosi e impregnati di sincero dolore. Poi l’oblio, fino agli anni 1970 quando Leonardo Sciascia convinse Elvira Sellerio a ripubblicare i Mimi ed Italo Calvino a scriverne l’introduzione. Da quel momento, sarà difficile avere in Sicilia un incarico nel mondo universitario senza aver redatto qualcosa su di lui. Una critica di qualità, ma autoreferenziale. Credo sia necessario far uscire Francesco Lanza da quel cerchio. Per questo, ho deciso di dedicargli un sito nel quale mi propongo di pubblicare quanto egli ha scritto (lo ha fatto solo per una decina d’anni, ma con la portata del fiume in piena) e quanto su di lui è stato scritto. Si tratta di migliaia di pagine. Un lavoro impegnativo che svolgo volentieri: rileggere Lanza è un piacere che permette anche di decifrare il travaglio dell’isola e dei suoi scrittori nel corso del decennio che seguì la prima Guerra Mondiale: nazionalismo/regionalismo, fascismo/antifascismo, e così via.  

Mi racconti il tuo incontro in treno con Sciascia? In fondo era un maestro di elementari, l’esempio tipico e purtroppo estinto dell’insegnante che forma l’Italia. Penso subito ai maestri Lodi e Manzi. O a Caproni, che per soprammercato traduceva Celine, Proust… merito del partito comunista, della loro linea comune?

Negli anni Sessanta, acquistai il Giorno della civetta pubblicato da uno scrittore siciliano del quale ignoravo l’esistenza e presi il treno per tornare a casa. Nel vagone, proprio di fronte a me, trovai una coppia sulla quarantina. Tirai fuori il volume e mi immersi nella lettura. Voltando una pagina, mi accorsi che la signora indicava al marito il libro che stavo leggendo, ricevendone un silenzioso sguardo d’intesa.

Avrei potuto attaccare bottone, ma non volli interrompere il fluire di una narrazione che mi avvinceva. Sceso dal treno, diedi un’occhiata alla quarta di copertina e vi trovai la foto dell’autore. Non credetti ai miei occhi: era proprio quel signore seduto davanti a me.

Cominciai a precipitarmi sui libri di Sciascia man mano che uscivano. Vedevo la sua produzione come un modello di prosa, ma anche e soprattutto come una formidabile arma nella lotta per l’affrancamento della Sicilia dal sottosviluppo, dall’incultura, dalla corruzione, dalla mafia. Sciascia era l’antidoto al Gattopardo, gridava con voce robusta che l’isola doveva e poteva cambiare. Avevo, e come si sa non ero il solo, gran fede nella scrittura. Scoprii anche che eravamo accomunati dalla passione per la Francia, intesa come terra dei lumi e quindi vaccino contro la cosiddetta Sicilia irredimibile.

Negli anni Settanta Sciascia entrò in rotta di collisione con il PCI, partito nel quale militavo. Non apprezzavo né la sua teoria sulla “desertificazione ideologica e ideale” verso la quale il Paese si avviava, né il suoi “sbandamenti” sul terrorismo. Non mi rendevo conto che all’“eretico” Sciascia non faceva difetto la dimensione profetica. Ho apprezzato molto che Emanuele Macaluso abbia avuto l’onestà intellettuale di pentirsi di quanto aveva detto a proposito del Contesto.

Poi c’è il tuo insegnamento in Costa d’Avorio, in Albania e Montenegro (dopo le guerre immagino). I tuoi studenti erano delle università locali, come ti trovavi in veste di insegnante all’estero? Deve essere stato più difficile, più coinvolgente rispetto alle esperienze negli istituti di cultura che danno un’idea un po’ togata e vetusta di proselitismo nazional-culturale…

Insegnavo nelle locali Università. Ad Aix-en-Provence, all’interno del dipartimento di italiano, usavo la nostra lingua. Le lezioni di “Histoire de l’Italie post-unification” le tenevo invece in francese. In Albania (durante la guerra civile) e in Montenegro (dopo le guerre civili, ma durante l’attacco Nato) in italiano (la maggioranza degli studenti conoscevano già abbastanza bene la nostra lingua). In Costa d’Avorio in francese, vi ho imparato lo “slang” locale che ovviamente non usavo all’Università.

La diversità culturale tu la vivi, la sperimenti anche sulla frontiera. La senti in modo diverso da Orengo, meno pacificato, meno garantito dalla storia. Raccontami. Che sensazione nutrono i francesi verso di noi e viceversa?

Lo scrittore della frontiera è piuttosto Francesco Biamonti che aveva un grande e profondo interesse nei confronti della Francia limitrofa. Io vivo a Grimaldi, a 500 metri dalla frontiera. Convinto che i luoghi abbiano una memoria, ho cercato di scoprirne la storia: i passaggi degli ebrei, degli antifascisti, di personaggi come il liceale Curzio Malaparte che nel 1914 marinava la scuola per recarsi clandestinamente in Francia a combattere contro i tedeschi, Primo Levi che vi incontrava l’amico Pikolo, suo compagno ad Auschwitz, Pasolini che constatava quanto il confine fosse artificiale, ecc. Casa mia è sfiorata dal sentiero che porta in Francia attraverso il cosiddetto Passo della Morte, vedo ogni giorno decine di migranti praticarlo e sono diventato un osservatore diretto di quanto attualmente avviene. Ho scritto un libro intitolato appunto Il passo della morte (infinito edizioni) che racconta il passato e il presente di questo fazzoletto di terra.

Schengen ha abolito la frontiera per gli uomini (tranne che per i “dannati della Terra”) e le merci; le frontiere mentali restano ben salde, rafforzate dai sovranisti di ambedue le parti che soffiano sul meccanismo noi/loro; i pregiudizi brulicano. Io credo che Grimaldi debba svolgere il ruolo di cuscinetto tra due popoli destinati a darsi la mano ed opero in questa direzione. Tempo fa, Nice Matin mi ha definito “briseur de frontières mentales”. Non è facile, ma ci provo. A Cédric Herrou (l’agricoltore amico dei migranti) piace dire “Mon village est Breil-sur-Roya, ma ville est Vintimille”, io, un po’ provocatoriamente, lo copio affermando “Grimaldi è il mio paese, ma la mia città è Mentone”.

Sergei Voronoff (1866-1951)

Veniamo alla scienza, alla fanstascienza del russo delle sue parti. Come ti ha catturato Voronoff? Com’è nata la stregoneria? Dico, a parte la prossimità geografica che innesca la ricerca saggistica, come ti è capitato di incuriosirti?

Da adolescente fui incuriosito da quanto, parlandomi di ormoni, un biologo mi disse a proposito di un certo Voronoff. Del tutto casualmente, molti anni dopo venni ad abitare in via Voronoff, a un tiro di schioppo dallo Château del chirurgo franco russo. La quasi predestinazione mi spinse a saperne di più, tanto che, dopo anni di ricerche, potei scrivere la sua biografia. La scrissi in prima persona, ma era un gioco letterario, non mi identificavo: eravamo e siamo solo amici intimi.

Voronoff trapiantava testicoli di scimmia sugli uomini con l’obiettivo di rafforzare la sessualità e bloccare il processo d’invecchiamento. Le aspettative che suscitò furono enormi, non a caso fu uno degli uomini più popolari della propria generazione. Seppe interpretare come pochi altri l’esprit du temps, l’ottimismo della Belle Époque. Si disse che ciò che caratterizzava il nuovo secolo fossero i grattacieli americani e le operazioni di Voronoff. In Italia e in Francia venne coniato il verbo “voroniffizare/voronoffiser” che stava per “ringiovanire”. Mussolini nel 1923 si autodefinì “il Voronoff d’Italia”. Il mio amico ispirò scrittori quali Svevo, Bulgakov o Conan Doyle, canzoni, riviste e numeri di avanspettacolo.

Il rigetto benché non fosse conosciuto, non faceva sconti. Se miracolo c’era, era dovuto all’effetto placebo. Non si può escludere, d’altronde, che le sue operazioni abbiano contribuito alla diffusione dell’Aids in Europa.

Il mio libro in questi giorni viene tradotto in russo; successivamente, l’editore ha in mente di produrre anche un film. Il personaggio e la sua vita, che sembra tratta da un romanzo di Scott Fritzgerald, hanno in effetti di che affascinare il pubblico.

Il tuo incontro con Latouche. Raccontami tutto. Come si arriva a coniugare letteratura ed economia e a pubblicare Sortilegi con Bollati …penso anche alla tua raccolta di racconti africani, Il ventre del pitone, introdotta da Latouche

Ci siamo conosciuti in Benin durante un seminario. Ha letto i miei racconti ambientati in Costa d’Avorio, li ha apprezzati e mi ha proposto di pubblicarli assieme ai suoi ambientati nel Congo di qualche anno prima. Ne è uscito fuori Sortilegi, pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2008, un tentativo di presentare ai lettori europei alcuni aspetti (ruolo del denaro, della donna, della religione, ecc.) dell’Africa nera nel periodo che va dalle indipendenze alla globalizzazione. Il libro è stato successivamente pubblicato in Belgio. Del nostro incontro, Latouche ha scritto: “Al di là delle diverse nazionalità, ho riconosciuto in Enzo un fratello al quale mi legava una complicità, strana come quella che si incontra nel mondo dell’invisibile”. Complicità dovuta forse al fatto che, tra le pieghe della razionalità dell’economista, fa capolino l’animo dello scrittore.

*in copertina Cactus di Morlotti

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