18 Luglio 2019

Sia ode a Barbara Comyns (e all’editore che la pubblica): donna, bella, indipendente, scrittrice di romanzi gotici che piacevano a Graham Greene e anticipano Stephen King

“So che questo non sarà mai un vero libro e che gli industrialotti non se lo porteranno con loro per il viaggio in treno. Vorrei saperne di più in fatto di parole. Anche vorrei aver imparato di più sui banchi di scuola. Non l’ho mai fatto e da allora ho sempre trovato uno svantaggio alla partenza. Però, tutto considerato continuerò, a scrivere questo libro alla faccia degli industrialotti”.

Così la protagonista Sophia, maschera dell’autrice Barbara Comyns (1906-1992) in un libro dei primi anni Quaranta. Per capirci, quando da noi ancora eccitava Il piacere formato libro da portineria. Occorre saperne di più sull’autrice, a questo punto.

Viene facile. La casa editrice Safarà di Pordenone ha rilanciato la sua scommessa sulla Comyns. È facile oggi far valere i meriti di una donna che scriveva quando la cosa era guardata malissimo nonostante le varie Brönte e la Austen. Semplicemente, le donne potevano leggere ma “non toccare” la penna, non sia mai che la mano femminile inguantasse il mondo al posto degli ometti.

Risultato. Potete godervi in libertà Chi è partito e chi è rimasto (uscito l’anno scorso) e poi passare in libreria dal 18 luglio per trovare La ragazza che levita. Il titolo originale, Vet’s daughter, lascia intendere che si tratta di saga familiare: eccome, è la contro storia di Alice nel paese dei balocchi.

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In effetti, il talento della Comyns è riconosciuto da una scrittrice contemporanea quale Jane Gardam che in Italia la leggete ora per Sellerio. Gardam ha conosciuto di persona la Comyns e ha speso per lei parole decisive su Spectator, parlando di La ragazza che levita: “Era donna dalle certezze sicure, impetuose. Anche nella profondità della solitudine, del rifiuto, le sue eroine sono come lei – prendono decisioni illuminanti e, spesso, ben poco saggie. Sembrano mosse da una curiosità inestinguibile mentre osservano con la pupilla interiore. La morte, e ci sono morti tremende nelle sue storie, non può conquistare questo sguardo interiore delle eroine”.

Il bello è che la Comyns sta tutta dentro a quel modo di fare che porta subbuglio nelle patrie lettere: il reverendo di Oxford aveva raccontato a fine Ottocento di una bambina che si perde nel mondo onirico e segue il coniglietto? Ebbene, la Comyns ribalta la storia. Fa letteratura con gli stessi ingredienti della tradizione gotica, ma il risultato è opposto, un’educazione poco serena alla maturità: posto che si arrivi vivi con la protagonista fino al fondo della storia, solo per ricevere una mazzata sui denti dalla narratrice.

“Il senso del racconto fiabesco non lasciava mai la Comyns” scrive giustamente la Gardam che di fiabe ne sa qualcosa, lei che ha esordito nel 1971 con una storia per ragazze, A long way from Verona, dove la città è solo pretesto, come per il vecchio William, mentre il cuore sta dentro le creature romanzesche.

La Gardam in questo è emula della Comyns: ma di successo, vivendo fortunatamente in anni dove la donna che scriva è riconosciuta con più onestà e, forse, più orgoglio rispetto al passato. Scrivere con piglio fiabesco, in ogni caso, non esime dal trovare tracce di sangue: con Il ginepro, una delle ultime cose sue, del 1985, la Comyns torna a bomba all’omonimo racconto dei fratelli Grimm. Il ginepro si apre col foglio di guardia che rinvia ai Grimm. Insomma, l’autrice vuol mostrare le sue carte da persona “studiata” per poi sfilacciare questa canzone macabra che sarebbe potuta comparire in esergo a La ragazza che levita: “Mia madre mi ha ucciso / Mio padre mi ha odiato / Mia sorella, piccola Marlinchen, / ha raccolto le mie ossa / e le ha poste in un fazzoletto di seta / sotto un ginepro, / mi chiamo Kywitt e ora sono / un uccellino favoloso”.

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Bagno di realtà dopo la poesia. Quando la Gardam andò a trovare l’autrice de La ragazza che levita a metà anni Ottanta, la trovò bella come volevano i rumors (forse è questa sua bellezza dentro un’intelligenza semplice la chiave delle invidie). “Si considerava una pittrice più che una scrittrice ed era ancora bella come un’attrice, cosa che l’ha indotta a mettere la sua foto sul retro dell’ultimo lavoro, Casa per bambole. Libro piuttosto bruttino” (notare la coda perfida, molto brit). In quell’occasione le due scrittrici presero il tè insieme al secondo marito della Comyns: poi, scontenta per non essere stata ancora riconosciuta per quello che valeva, l’arzilla ottantenne esplose. “Immagino certamente tu abbia sentito dire che mio marito ha lavorato come spia, a Whitehall, con Kim Philby – ma che uomo delizioso che era! Davvero divertente, stava sempre qui da noi per giocare a carte. E né io né mio marito pensavamo che spiasse per l’Unione Sovietica. Così quando Kim se ne scappò dai Russi mio marito fu licenziato col pretesto che o sapeva della cosa e aveva protetto Philby, o proprio non se n’era accorto e allora era un trombone”.

Insomma la Comyns aveva pelo sullo stomaco, parlar bene di Philby in UK prima che cadesse il Muro di Berlino era un gesto un tantino suicida. Poi i cinici potranno partire e dire che va bene, allora l’elogio di Greene a La ragazza che levita era una sponda al collega spione…

Per fortuna la letteratura ha ragioni dorate che non sentono bene il cannone della politica: gli undici romanzi della Comyns stanno lì a dimostrarlo, con quei loro mondi dove la fortuna cambia più rapidamente di un istante, più veloce della vita perché almeno nella vita hai il colpo d’occhio, mentre coi libri devi voltare pagina per scoprire che male e bene sono adunati insieme con distacco, con calma, senza scossoni.

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Qualche parola sulla vita della Comyns prima di assaggiare l’attacco de La ragazza che levita. Crebbe in una famiglia numerosa, erano in sei tra fratelli e sorelle e la madre, partorito l’ultimo, divenne sorda. Pare assurdo, è così. Entro la fine degli anni ’30, la nostra aveva già alle spalle un divorzio e, sulle spalle, due figli. Si trasferì a Londra e arrabattandosi tra impieghi l’uno più precario dell’altro (come allevatrice di cani francesi, sarta e rivenditrice di automobili) trovò la forza e l’energia per comporre Sorelle al fiume che apparve spezzato su rivista. E mica col titolo pulito, ma sotto il titolo cubitale Il Romanzo Che Mai Nessuno Pubblicherà. Cosa che invece puntualmente avvenne, nel 1947.

Passano dieci anni, la Comyns continua in queste peripezie londinesi – che lassù sono la norma, City e dintorni sono più stregati della rive gauche per tentare incantesimi letterari – e dà fuori una storia picaresca, I nostri cucchiai di Woolworths (1942). Trama asciutta, lui e lei entrambi artisti che non riescono a trovare la quadra perché come insegna zio Scrooge il denaro umano “ha potere fatto di parole e di sguardi, di cose tanto minime e fuggevoli che non è possibile addizionarle e contarle”. Ergo, no money no love, neanche col binocolo. Però il libro regge, accidenti se regge, oggi rientra nell’Olimpo della New York Review Books Classics.

Come scrive l’estensore del profilo della Comyns su Lithub: “il romanzo non soffre per errori di scrittura frutto di distrazione o disattenzione e dimostra una sua visione notevole mentre si dispiega, c’è proprio una scrittrice che incanta subito il lettore e lo porta in luoghi stregati. La Comyns ottiene questo racconto filato in modo poco consueto tracciando i suoi archi tra le pagine, facendo saltare i toni coi suoi passaggi. Tutto questo con leggerezza e facilità.”

A seguire verrà La bambina che levita (1959) con tanto di benedizione di Graham Greene che scrive “riesce a guardare le cose con lo sguardo infantile della prima volta”. Servirà tenere presente che con le fiabe avviene l’opposto che con la fantasia del genere di Pinocchio: mentre per Collodi c’è un cavo teso dall’inizio alla fine che dà senso razionale alle cose inventate per farle avvertire come reali, nella Comyns valgono le regole della tradizione romantica tedesca. A dire che all’inizio tutto è sospeso e trasognato. Così la lama affonderà come nel burro per raggiungere il finale, e farà male.

Andrea Bianchi

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La ragazza che levita

Un uomo dagli occhi piccoli e dai baffi rossi si avvicinò e mi parlò mentre ero immersa in altri pensieri. Percorremmo insieme una strada costeggiata da siepi di ligustro. Mi disse che sua moglie apparteneva al Plymouth Brethren dei conservatori evangelici irlandesi, e io gli dissi che mi dispiaceva molto, perché sembrava fosse quello che aveva bisogno di sentirsi dire e io vidi che era davvero una creaturina malridotta. Se fosse stato un cavallo, le sue rotule sarebbero di certo state consunte. Raggiungemmo il grande arco rosso della ferrovia che fendeva la strada come un pesante arcobaleno; e in parte a questo arco c’era una casa con una lampada all’esterno, la casa di un veterinario. Dissi: «Mi dovete scusare» e lasciai il pover’uomo tra le siepi di ligustro.

Entrai nell’edificio. Era la mia casa e puzzava di animali, nonostante il pavimento fosse ricoperto di linoleum. Mia madre era in piedi nella sala scura e mi guardava con i suoi occhi tristi, per metà ricoperti dalle palpebre pesanti, ma non parlava. Se ne stava lì, immobile. Le sue ossa erano piccole e le spalle cadenti; anche i suoi denti non erano dritti; se fosse stata un cane, mio padre l’avrebbe senza dubbio abbattuta.

Dissi: «Madre, sento odore di cavolo. Dev’essere ora di pranzo».

Lanciò uno sguardo ansioso e spaventato verso la cucina, con le piccole mani raccolte al petto come fossero state le zampette di un gattino. Andai in sala da pranzo con l’intenzione di apparecchiare la tavola ma lei mi aveva anticipata e nonostante l’argenteria splendesse, sulla tovaglia c’erano delle macchie scure di salsa – e anche se vi misi sopra la saliera, non riuscii a nasconderle. Nei vasetti c’erano sottaceti di diversi colori. L’acqua nella caraffa di vetro aveva un aspetto stantio; ma c’era della birra per mio padre.

La sala da pranzo era immersa nell’oscurità perché un vecchio e sudicio albero di agrifoglio era cresciuto vicino alla finestra. Sarebbe stato impossibile dire che era estate se la griglia del camino non fosse stata piena di carta spiegazzata cosparsa di fuliggine. Ai piedi del camino c’era un tappeto fatto con la pelle di un alano, e sulla mensola intagliata del camino il teschio di una scimmia con una doppia collezione di denti che sembravano bisbigliare quando li fissavi intensamente.

Ci sedemmo tutti e tre a tavola a mangiare carne fredda. Era lunedì. Nessuno proferiva parola, e coltelli e forchette stridevano acuti. Mia madre fece cadere un cucchiaio pieno di purè di patate ed emise una debole risatina. Mio padre si morse i baffi. Erano neri, con le estremità lucide di brillantina. Sapevo che nell’armadietto del bagno c’era una bottiglietta di liquido incolore con un’etichetta francese che rendeva i suoi baffi e le sopracciglia di un nero brillante; e io avrei voluto che non lo usasse, perché lo faceva apparire malvagio.

Dopo pranzo aiutai mia madre in cucina. Attraverso la finestra potevo vedere il sole risplendere sui tetti e chiesi a mia madre il permesso di andare a fare una passeggiata al parco con la mia amica Lucy. Come d’abitudine mi disse di chiedere a mio padre, così andai nell’ambulatorio. La porta era tenuta aperta dallo zoccolo di un cavallo a cui mancava il resto del cavallo; lanciai un’occhiata all’interno. Mio padre suturava l’occhio di un pechinese. Stava utilizzando del cloroformio e tuttavia me ne andai, perché non sopportavo di vederlo cucire un cane in quel modo. L’odore di cloroformio sembrò rimanermi addosso anche quando incontrai la mia amica.

Passeggiammo per Battersea Park. I capelli di Lucy le ricadevano sulla schiena come l’acqua sgorga da un rubinetto, lunghi e liscissimi. La mia testa assomigliava a una campana di un giallo sbiadito. Parlavamo a gesti perché Lucy era sordomuta; sua madre le stava insegnando il mestiere di sarta perché la considerava un’occupazione adatta per chiunque fosse sordo e sciocco. Avevamo entrambe diciassette anni. Le madri sedevano sulle panchine verde scuro e guardavano i loro bambini giocare sull’erba fuligginosa, e lanciare in aria palloni e cerchi dai colori vivaci. Andammo a vedere gli uccelli; in lontananza un gruppetto suonava della musica. Alcuni soldati cercarono di conversare con noi, finché non si accorsero che parlavamo a gesti. Dopodiché ci sedemmo a guardare i battelli e le chiatte sul fiume. Grandi balle di carta multicolore e battelli carichi di paglia ci oltrepassavano a gran velocità e un uomo dalla faccia scura ci salutò con la mano da una chiatta a carbone, e noi ricambiammo il saluto perché sapevamo che non si poteva fermare. Vicino all’acqua, l’aria era incantevole; ma troppo presto venne l’ora di rincasare lungo le strade di edifici rossi e gialli, minacciosi e roventi. Non so cosa accadde a Lucy quando tornò a casa, però mio padre mi impartì uno schiaffone sulla nuca e fui spedita a pulire le gabbie dei gatti.

Quella sera mio padre uscì a giocare a biliardo e io e mia mamma ci sistemammo tranquille nel giardino sul retro, che era fatto di clinker ed era intrecciato di edera scura. Cucimmo i buchi che spuntano sempre sulle lenzuola, e mia madre mi raccontò della fattoria in Galles in cui aveva vissuto quando era ragazza. Mi raccontò di enormi capre di montagna, selvagge e con grandissime corna ricurve, e immobili laghi scuri che si ghiacciavano con l’arrivo dell’acqua dei fiumi di montagna, e della cascata vicino alla fattoria che era l’unica fonte di acqua che possedevano. Mi piaceva ascoltare mia madre parlare; ma sussurrava appena quando mio padre era in casa.

La giornata era quasi giunta al termine ed era stata come la maggior parte dei giorni che riuscivo a ricordare: tutti adombrati da mio padre e tutto un pulire gabbie di gatti e puzzo di cavolo, a fuggire le flatulenze e il profumo di mio padre. C’erano dei momenti di pace, e a volte il sole splendeva, là fuori.

Barbara Comyns

*traduzione di Cristina Pascotto

 

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