19 Settembre 2020

“Perché credo che la perfezione stia pure nella caduta”. Il romanzo di Aurelio Picca è un corpo a corpo con la coscienza, un crudele regolamento di conti che appartiene a tutti. Che lo leggano tutti i genitori di oggi

Con tutto il carico di enfasi, ossessioni e sentimenti che trasporta, Il più grande criminale di Roma è stato amico mio di Aurelio Picca (Bompiani, 2020) andrebbe innanzi tutto consigliato ai genitori, poi fatto adottare da quei collegi didattici e quei servizi sociali in cui, chi nulla sa dell’infanzia, è chiamato a sfidarne i fantasmi. A questa convinzione giungo dopo l’attenta lettura di un romanzo già molto celebrato da giornali e lettori, sebbene sia stato presentato un po’ da tutti come l’ennesimo – stavolta riuscito – tentativo di raccontare gli anni orribili ma effervescenti della Roma a mano armata. Peccato, perché l’accidia di certa critica impedisce di constatare innanzi tutto l’ammirevole coraggio dell’autore, quindi la corporalità di una scrittura che diventa scudo, e forse anche vaccino, delle proprie debolezze. Il nuovo romanzo di Aurelio Picca getta le viscere sul tavolo, apparecchia per cena episodi e budella, sceglie dalle prime pagine in quale parte del campo giocare: il dolore. Ecco perché dovrebbe essere adottato nelle officine in cui si forgiano gli uomini di domani, perché gli adolescenti che oggi cercano alibi per crescere nei loro ecosistemi coltivando felicità bipolari e sessualità fenomenologiche, senza alcuno scandalo potrebbero tatuarsi addosso questo passo. «È un delirio con questo sesso (…) Si accoppiano come bestie partorite in laboratorio. Non annusano, non sentono. Hanno corpi di plastica. Perfino i tori da monta non ficcano tutte le vacche. Devono trovare il loro odore».

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Leggendo Picca viene in mente – non per affinità artistiche, ma per la letteratura che si sovrappone alla vita – il cantautore Niccolo Fabi. Il coraggio e la necessità di intraprendere un corpo a corpo col dolore, postando sui social la prematura morte della figlia di due anni a causa di una meningite. Quel dolore è letteratura, sopravvivenza. «Scrivo queste puttanate perché mi sbatte in petto mia figlia» racconta Picca, denudando la pelosa nostalgia con cui giornali, critici e premi letterari hanno frainteso questo romanzo. Invece il ricordo ossessivo, asfittico, patologico nella sua ciclicità ma così naturale nella sua sequenza, della figlia Monique, porta questa storia verso il magma capace di esaltarne l’enorme potenziale poetico: la dannazione. Verso la maledizione dei padri costretti a sopravvivere ai figli, verso l’ergastolo che pesa su quei genitori che – per una ragione o un’altra, magari perché il destino è stato più lesto – non sono stati in grado di proteggerli. Non un romanzo sulla memoria, ma la confessione di una colpa che non garantisce assoluzione. E dentro questa strettoia, in cui mille altri romanzieri ci hanno rimesso l’osso del collo, Picca offre il meglio del libro grazie a una narrazione in prima persona davvero empatica, struggente, scritta in stato di necessità, visibilmente sofferta, palesemente autentica. C’è tutto Shakespeare, la sua esilarante disperazione umana. E c’è Virgilio, Priamo che s’inginocchia ad Achille per supplicare il corpo di Ettore. L’enfasi e l’eternità di un padre che rivendica il corpo morto del figlio, riscatto della vita attraverso il riconoscimento della colpa. C’è l’impotenza di chi darebbe indietro la sua pur di riportare in vita il figlio, ma nulla può e più nulla (dopo il fallimento) gli è concesso. I pavidi romanzi contemporanei sono così timidi nei confronti del dolore, della perdita e del distacco da far sospettare che i loro autori vivano in un altro mondo, che esercitino la loro missione su un pianeta in cui, l’elemento in cui paradossalmente risiede più vita – l’abbandono, cioè la morte –, non sia nemmeno contemplato. Picca se lo carica tutto sulle spalle, l’abbandono si fa responsabilità. «Ero massacrato dalla colpa (…) mi saliva dentro la colpa per tutto e per tutti. Per Catherine, per Monique (…) E per i morti ammazzati. Ero massacrato dalla colpa: per i vivi e per i morti; per i nemici e gli amici, per gli assassini e le vittime».

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Dentro e intorno a questa paternità piena di ombre e fantasmi, c’è la vita del malavitoso Alfredo Braschi (io narrante del romanzo). Le cui vicende sono legate, appunto, a quelle del più grande criminale di Roma, Laudovino (detto Lallo) lo Zoppo. Scommesse, cavalli, donne, davvero tante donne perlopiù tenute sullo sfondo quasi per aumentare la densità dell’aura della figlia Monique, ed ancora rapine, sequestri di persona alcuni dei quali molto cruenti, ammazzamenti, imboscate, tranelli e fughe dalle carceri: questa la flettatura a cui s’avvitano le giornate di Alfredo, innamorato del lago capace di mettere a tacere un vulcano, quello di Albano. Questa vita depravata e straordinaria gli impedisce, però, di accorgersi di quello che stava accadendo alla figlia, sia da adolescente (quando viene stuprata, forse da un amico del padre: «Anche mia figlia l’ho ritrovata in mezzo all’erbaccia della tribuna delle Olimpiadi. Sporca di sangue. Non erano mestruazioni») e sia da ragazza (quand’è morta per overdose: «Il lago è uno sputo e oggi ho rivisto mia figlia piangere col sangue che mi macchiava la maglietta. E io che ripetevo: “Amore non piangere, non è successo niente. Amore di papà, non è niente”»). Da allora convive con questa dannazione, che spesso tende imboscate sotto forma della nenia che cantava alla figlia: Ninna Nanna, Ninna oh… «È l’operazione al cervello che un chirurgo sotto forma di ombra mi fa ogni notte. Trapanando il cranio». Fino a quando, al termine di un Natale che avrebbe dovuto portar pace nelle anime di tutti, sente di aver trovato il responsabile dello stupro. «È stato a quel punto che ho visto mia figlia abbracciarmi. L’ho rivista piangere farfugliando che qualcuno, tenendola in braccio, le ripeteva “Ninna Nanna, Ninna oh”. Il bastardo era lui, eccolo! Eccolo! (…) Non avevo prove. Ma chi ha sentito il sibilo e l’odore del sangue degli animali e degli uomini non ha bisogno di prove». Vallo a spiegare a questa pandemia, che costringendoci alla distanza mortifica la chimica alla base delle relazioni, impedisce che ci si riconosca per ciò che siamo. Animali, continuamente schierati a difesa del nostro territorio.

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Dal romanzo in cui rapine, sequestri e violenze dovrebbero raccontare i bestiali anni Ottanta della Capitale, traspira invece una poesia psichedelica sotto forma di colpa: il dolore appunto, questo straniero al quale nessuno chiede documenti. Il romanzo di Aurelio Picca è un corpo a corpo con la coscienza, un crudele ma necessario regolamento di conti che appartiene un po’ a tutti. Un combattimento a cui l’autore non si sottrae, uscendo trionfalmente per quasi tre quarti del libro e molto abilmente per il resto (la parte dedicata ai processi, ai giornali e alla ricostruzione dell’habitat, necessaria alla narrazione sebbene non ne sostenga né il passo né lo stile). Per gli appassionati di sottolineature, il romanzo non permette di staccare la matita dai fogli per più di tre pagine. «La tristezza è superiore alla morte. È il fantasma della morte. Se la morte non fosse semplice e spietata soffrirebbe anche lei di tristezza». Picca è coraggio puro, concede una confessione così intima («Vi prego di perdonarmi se ho osato darmi in pasto») e così credibile («Perché credo che la perfezione stia pure nella caduta») che dovremmo essergli grati. Nella steppa degli autori che si distinguono per la loro indistinguibilità, Picca combatte per un solo obiettivo. Morire, per puntare all’eternità.

Davide Grittani

* Davide Grittani (Foggia, 1970) ha pubblicato i reportage “C’era un Paese che invidiavano tutti” (Transeuropa 2011, prefazione Ettore Mo e testimonianza Dacia Maraini) e i romanzi “Rondò” (Transeuropa 1998, postfazione Giampaolo Rugarli), “E invece io” (Biblioteca del Vascello 2016, presentato al premio Strega 2017), “La rampicante” (LiberAria 2018, presentato al premio Strega 2019 e vincitore premio Città di Cattolica 2019, Nicola Zingarelli 2019, Nabokov 2019, Giovane Holden 2019, inserito nella lista dei migliori libri 2018 da “la Lettura”del Corriere della Sera). Editorialista del Corriere del Mezzogiorno, inserto del Corriere della Sera. Dirige la collana “Dispacci Italiani (Viaggi d’amore in un Paese di pazzi)” per l’editore Les Flaneurs. 

**In copertina: «Il più grande criminale di Roma», Laudovino De Sanctis, detto “Lallo lo zoppo”, il cuore (e il pretesto) del romanzo di Aurelio Picca

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