31 Ottobre 2019

Arthur Cravan, il poeta-pugile che ha influenzato David Bowie, Cassius Clay e i Sex Pistols

Nel nome è tutto. Tra il 1912 e il 1915 pubblica la rivista “Maintenant”, costruita a Parigi, al 67 di Rue Saint-Jacques (poi al 29 di Avenue de l’Observatoire). “Maintenant”, Revue littéraire, significa ora, adesso, reclama l’attimo come gesto, l’istante come letteratura. Dunque, l’idea che il giorno sia biologia, la letteratura un corpo, il poeta, anzitutto, vita, carne, morso. In effetti, il direttore di quella rivista d’avanguardia che durò lo sprazzo di qualche audacia (cinque numeri, l’ultimo nel “marzo-aprile” 1915), “meteora e stella fissa nel cielo surrealista”, si chiamava Arthur Cravan, alto due metri quasi, vagabondo, cento chili di peso all’incirca. La rivista, con spirito furibondo, la scriveva tutta lui, povero in canna e abile col destro: il primo numero prometteva Documents inédits sur Oscar Wilde. Del mitico Wilde il tipo – nome d’origine, Fabian Avenarius Lloyd, cittadinanza svizzera, anno di nascita 1887, 22 maggio – si diceva parente acquisito: la zia del padre, Constance Mary Lloyd fu la moglie di Oscar. Più che altro, Cravan, grande & grosso & solo, cercava un padre. Il primo fu Wilde. “Wilde aveva una risata piena, che sembrava scaturire da una sorgente profonda e copiosa… Se aveste visto Wilde entrare in un salotto, soggiogati dalla maestosità e disinvoltura dei suoi modi… con lui facevano il loro ingresso la padronanza e il prestigio”.

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Arthur Cravan appartiene a quel tempo in cui si pensava che la letteratura fosse il cardine e il cordame della vita, che vivere poeticamente significasse sfracellarsi. André Breton lo ammirava, “gli intenditori ne capiranno il genio allo stato grezzo, per molto tempo i poeti berranno alla sua fonte”. Il fraintendimento, in questo caso, stava nel riconoscere nella pura corporeità di Cravan – poeta sostanziosamente ignorante, tutto istinto – una specie di innocenza. I baroni baroneggiavano, baloccandosi con le avanguardie, mandando all’avanguardia Cravan, poète et boxeur, come si diceva. La vita va fatta a pezzi con i versi, va presa a pugni, d’altronde. Breton installò Cravan nella sua Anthologie de l’humor noir, per Gallimard, tra Poe, il Marchese de Sade, Baudelaire, Kafka e Alberto Savinio. La prima edizione del libro è del 1940, ma Cravan non potè goderne, era morto, misteriosamente, da un pezzo.

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Il secondo maestro di Arthur Cravan – per inaudita provocazione – è André Gide. “Scrivevo due righe a Gide, facendomi forte della mia parentela con Oscar Wilde; Gide mi riceveva. Lo sbalordivo con la mia statura, le mie spalle, la mia bellezza, le mie eccentricità, le mie parole. Gide impazziva per me, io lo trovavo simpatico. Ed eccoci in viaggio verso l’Algeria…”. Arthur Cravan dà l’idea del poeta primordiale, che preda la realtà: di fatto, è bisnipote di quell’altro Arthur, Rimbaud. A lui dedica una poesia, Arthur:

Gasteropode amaro… e sorridevo all’erba,
grande trampoliere smarrito
triste di essere un pugile
ho bisogno di soldi,
Dio santo, che razza di tempo e di primavera!
le mie musiche gaglioffe, eccoti qua, vecchio faraone!
Della luna poco m’importava; i prati stravaganti;
mordevo i passanti; un record!
Pastorale, Egloga, Georgica,
Pazzo a essere un pugile pur sorridendo all’erba;
…venti volte ho rinnegato il mio cuore. Non posso più restare…

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Poesia tutta fisico & moto quella di Cravan, martire alla poesia, “preferisco Arthur Cravan che ha fatto il giro del mondo durante la guerra, perennemente obbligato a cambiare nazione per sfuggire dalla stupidità umana”, scriveva Francis Picabia. Più che leggere Cravan, vien meglio scrivere di Cravan: l’antologia dei suoi scritti, Grande trampoliere smarrito, edita da Adelphi, in effetti, pare un pretesto per l’esercizio biografico (alla Marcel Schwob) di Edgardo Franzosini, L’importanza di non chiamarsi Fabian Avenarius Lloyd. “Arthur Cravan fu poeta, scrittore, pittore, critico d’arte, conferenziere e pugile (ma, secondo Blaise Cendrars, anche scassinatore, raccoglitore di arance nelle piantagioni della California, pescatore di merluzzi al largo di Terranova, conducente di taxi e ricattatore: tutte occupazioni che Cravan intraprese e quindi abbandonò perché attratto, come scrisse lui stesso, dalla ‘meravigliosa vita del fallito’)”. La bulimia di vita sembra colmare l’assenza dell’opera: è Cravan stesso l’opera, verbo vivente, parola destinata a frantumarsi in non-senso.

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In chiusa a un ottimo servizio pubblicato sulla “Paris Review”, Arthur Cravan, the Original Troll, Edward White: “La vita e la morte di Cravan hanno prefigurato un nuovo tipo, l’artista giovane, bello, brillante, il cui lavoro si sviluppa intorno al fluire della propria identità; c’è un po’ di Cravan in Andy Warhol, David Bowie, Andy Kaufman. Si può perfino dire che qualcosa di Cravan si sia installato nei pugili venuti dopo di lui. Già nel 1929 John R. Tunis scriveva che “per un pugile moderno l’ultima cosa è il combattimento”, dato che al principio deve occuparsi “dell’arte di ottenere pubblico e fare pubblicità”. Cravan ne fu consapevole prima di tutti. Anche la sua identità di poeta-pugile pare prevedere – benché sia stata nettamente superata negli esiti – da Muhammad Ali, l’oratore che si è inventato e reinventato. In verità, Cravan resta una meteora oscura e curiosa che ha forgiato lo spirito Dada. Rese vane le distinzioni tra un pugno in faccia, un pennello sulla tela, un ghigno dietro la mano”.

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In un numero speciale di “Excentriques” si suppone la potenza di Cravan prophete come fonte dei Sex Pistols. “I concerti dei Sex Pistols finivano come le conferenze tenute da Arthur Cravan. Cravan spara colpi di pistola e insulta il pubblico; Johnny Rotten gli sputa addosso e Sid Vicious gli taglia le braccia… Cravan e il punk condividono la stessa energia vitale, lo stesso vigore anarchico”.

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Pugilava come poetava, Cravan: energumeno, tutto corpo, bello come un Apollo, mancava d’eleganza, non era bello a vedersi. Nei tornei per dilettanti – dove c’era poco da guadagnare – riusciva implacabile. Da professionista realizza tre incontri e va sempre a terra. Il primo è epico, il 23 aprile 1916, a Barcellona, contro Jack Johnson, “il Gigante di Galveston”, straordinario campione mondiale dei pesi massimi, con 71 incontri vinti, 40 per KO. Non ci fu gara: Jack gioca un po’ con Cravan – alquanto terrorizzato –, fino a metterlo al tappeto alla sesta ripresa. Il secondo incontro, sempre a Barcellona, il 26 giugno del 1916, contro l’onesto e rude pugile francese Frank Hoche. Cravan perde con facilità impressionante, ai punti, è detto ubriaco. Con i soldi degli incontri, però, si paga il battello per una vita nuova, a New York. Sulla nave, incontra Lev Trockij, affascinato dalla politica e dal pugilato, dal sangue, insomma. Pare che Trockij abbia fornito a Cravan un aforisma: “Si ricordi, amico mio, che se la cultura non è animata e ispirata dal pensiero scientifico, si riduce a semplice comodità”.

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Negli Usa Arthur Cravan osa sfidare a scacchi Marcel Duchamp – esito scontato: “Era un tipo strano. Non mi piaceva molto, ma del resto neanch’io gli piacevo”, dirà di lui Marcel – e si unisce a Mina Loy (la sua storia la leggete qui). Lei lo chiama “Colossus” – non è un caso che la raccolta di poesie di Sylvia Plath s’intitolerà, dedicata al suo ‘colosso’, The Colossus – e lo pretende. “Vuoi diventare mio marito?”. I due si sposano, lei lo porta via dagli stuoli di amiche e amanti del pugile-poeta. Si trasferiscono a Città del Messico, dove Cravan apre una palestra, torna in forma. Il 15 settembre 1918 ha l’ultimo incontro. Contro l’americano Jim Smith. Il poeta va giù dopo due round. L’amore con Mina Loy, però, va a gonfie vele. Lei resta incinta. I due decidono di tentare la sorte a Buenos Aires. Parte prima lei. Lui la segue, su un battello. Scompare. La morte, va da sé, inaugura la leggenda. Multipla. “La prima, che non è escluso si regga solamente su una semplice assonanza, vorrebbe che dietro lo pseudonimo B. Traven, lo scrittore di cui non si è mai potuto conoscere né il nome, né la nazionalità, né la data di nascita o di morte, si nascondesse in realtà A. Craven. L’altra vuole che Arthur sia riapparso in Francia attorno al 1921 e che, cercando di vendere a facoltosi collezionisti parigini lettere autografe e manoscritti appartenuti a Oscar Wilde, abbia tentato ancora una volta, sotto il nome di Dorian Hope, di ricavare un qualche vantaggio da quella sua parentela” (Franzosini).

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“Le persone che stimavo più di tutte al mondo erano Arthur Cravan e Lautréamont”, ha scritto Guy Debord. “Morire nell’anima è mille volte peggio del cancro. E io sono più che spacciato. Se sapessi come mi sento puro”, scriveva, lui, nel 1917, un po’ patetico, un po’ infantile, certamente inafferrabile, all’amata Mina Loy. (d.b.)

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