09 Maggio 2019

“Tutto lo scibile umano è la grande arte di eludere la temibile esperienza terrena”: quando la poesia ha iniziato ad avere terrore della vita. Ovvero, sullo scisma tra carne e intelletto che ha disfatto l’Occidente

Si narra che la poesia sia più antica della civilizzazione e, in epoche assai remote, imbrigliava la follia del mondo nel modo più potente e fertile, esaltandone la linfa. Poi tutto mutò…

In origine la scena del mito, dove si presentavano dèi, uomini e cose, era la natura; la quale evocò negli uomini un ordine fondato sul disordine originario dei fenomeni del mondo, che fino ad allora aveva consentito di assimilare per analogia il reale, senza ucciderlo o disprezzarlo. La complessità della rugosa realtà da stringere era ancora onorata, benché temuta.

E infine accadde l’irrimediabile frattura.

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Un mirabile storico delle idee racconta che il razionalismo mistico dell’antichità, il pensiero greco a Eleusi, disprezzava la carne e cercava di sostituire la creazione divina con qualcosa di proprio. All’alba della ragione autonoma, il razionalismo filosofico si spinse oltre e fu un pallido surrogato di quello mistico, giacché predicò la fiducia nelle sole proprie forze, ossia in un universo costruito con la logica, la geometria, la chimica.

Jacob Taubes, a sua volta, aggiunse che tendenzialmente i filosofi moderni oltrepassano l’ambito ontologico della filosofia classica greca, che, comunque intesa, girava ancora intorno a un’elaborazione del concetto di natura; concetto nel quale perfino la teologia cristiana era inclusa, poiché essa separava l’ambito naturale da quello sovrannaturale, cogliendo dunque l’ambito sovrannaturale attraverso concetti naturali. Il principio gnostico era già presente, ma le categorie meta-fisiche, allora, erano ancora fisiche, determinate dalla norma della physis.

La categoria universale della filosofia moderna al contrario non fu più rappresentata dalla natura, ma da un sistema di riferimento totalmente nuovo: lo spirito autonomo e i suoi corollari – interiorità, mente, intelletto. Le categorie della filosofia moderna furono trascendentali, non metafisiche. La sua norma non era la natura, ma ciò che veniva prodotto esclusivamente dall’uomo, da colui che si voleva superiore alla natura. La matematica moderna, infatti, non parlava più la lingua della natura. Venne così meno ogni costitutiva mondanità, la simbolica del mondo esteriore, che, rispetto al passato, si tradusse in mera allegoria, vuota idealità e vuota trascendenza di un io artificiale. Se la dissacrazione ebbe origine con la filosofia greca, e proseguì con la rivelazione monoteistica – poiché, “più netto della linea di separazione posta dalla filosofia pagana tra l’ambito divino e quello mondano, tra forma originaria e materia, fu il confine tra Dio, il creatore, e le sue creature, posto dalla rivelazione monoteistica” –, con l’affermarsi del metodo moderno delle scienze della natura il cerchio infine si chiuse, e l’interpretazione simbolica della natura, il mistero delle corrispondenze, persero ogni valore. Furono smascherate come mistificazioni. L’immaginazione, l’analogia e le corrispondenze, prive di un correlato mondano, presero la strada dell’allegoria, che rappresentò la vittoria della coscienza demitizzata sulla coscienza mitica.

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Anche il Romanticismo non sfuggì a tale schema: “i collegamenti romantici e post-romantici tra ordinamenti ed esplorazioni di corrispondenze non abbattono i ponti esistenti tra la fantasia soggettiva e il mondo oggettivo, ma restano fatalmente esiliati nell’interiorità soggettiva”. Con una cesura quasi manichea tra mondo e uomo, analogie e metafore mutarono in prodotti dell’immaginazione individuale, interiore, privi di un correlato esteriore. In fuga dal reale. Le corrispondenze, da allora, ebbero origine solo nel più profondo dell’anima, in un ritiro nel proprio essere.

Se la coscienza mitica in origine non conosceva alcuna separazione tra ambito divino, mondano e umano, in seguito vi furono i molti secoli, il cui retaggio ancora oggi domina, nei quali l’accento venne posto sull’interiorità del soggetto, e la verità dell’analogia fu esiliata nell’ambito chiuso, contemplativo, della poesia, con la relativa nascita del concetto dell’arte, surrogato e conseguenza di una frattura originaria: l’estinzione del mito. Era il rivolgimento dell’istinto dall’esterno all’interno. Una forma di contrasto della vitalità reale, impura, per sublimarla a un livello superiore, astratto, in un universo poetico chiuso, al riparo da quel che troviamo là fuori. Solo in quanto impulso poetico chiuso, interiore, si rivelò, da allora, il divino, l’assoluto, l’eterno, il non-mondano, l’infinito.

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È un mutamento profondo dello schema mitologico dell’antichità.

Io e mondo furono separati, e il desiderio di esistere, da allora, fu una colpa, un peccato. Si scatenò così quel processo di interiorizzazione della sofferenza, della stessa colpa della nascita e del desiderio di esistere, che neutralizzava e riassorbiva la carne della volontà.

L’impulso creativo, da allora, privo di un correlato mondano, fu questa stessa trascendenza interiore del soggetto, irrelata, storica, profana, autonoma. In preda a un dualismo gnostico, quasi manicheo, immaginammo una trascendenza che mutò nell’oltremondano, nel contro-mondano. In un contro-principio che si stagliava di fronte al mondo esteriore. Da una parte, la psiche, le potenze mondane, la vita naturale, che nella redenzione gnostica bisognava lasciarsi alle spalle; dall’altra, il pneuma, l’idea di un Sé non-mondano, centro trascendente e acosmico dell’io, interiorità ultima e irrelata, che nella gnosi corrisponde al Dio oltremondano. Un’antica idea di libertà, che si propaga per osmosi attraverso i secoli, e che, nella modernità, unisce pensatori anche diversissimi tra loro. Valéry e Proust, per esempio, furono dei pneaumatici che si rifugeranno nell’extra-mondanità dell’arte, in un particolare surnaturalisme – il loro unico aldilà, e assoluto, a cui si aggrapperanno con tutte le loro forze, sarà infatti la parola, considerata quale trascendenza in sé, in cui riaffiora intatto l’antico sigillo: “In principio fu il Verbo”. Una agognata perfezione caratterizzata dall’indipendenza dalla natura e dalla mondanità.

Con delle qualificazioni che aprirono le porte a una gamma di strumenti per depotenziare il contesto reale dei fenomeni della natura, di fronte al soggetto che tentava di spogliarsi non solo della natura ma anche dell’impura soggettività mondana della sua umanità, l’essere umano fu evocato come apertura sul possibile più che sul reale, come potenza immaginale che reagiva al piatto realismo, alla “falsa realtà dell’esperienza”, per evadere nel sogno e imbarcarsi nell’irreale. Così da proiettare l’Uomo al di là delle proprie condizioni biologiche, per spezzare “il sistema chiuso dei bisogni fisiologici, in cui sono prigioniere le altre specie animali”, e fare di lui una creatura alata, superiore. Colui che non spiccava tale volo spirituale era considerato alla stregua di un ominide. E non ingannatevi! Anche la celebre distinzione di Valéry, tra “spirito” nell’accezione metafisica – sia essa di natura filosofica, religiosa o iniziatica, ch’egli ripudiava – e la sua nozione di “spirito”, a cui attribuisce un significato strettamente funzionale: “di potenza trasformatrice che si oppone ad una realtà data, per proiettarsi oltre, verso un possibile che ancora non è, ma che, tuttavia, è in grado di prefigurare, sognare e, soprattutto, di costruire”, è vana, poiché le due nozioni sono unite da un comune e letale scopo: sdegnare il reale.

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Da allora, paradossalmente, sottrarsi, sprezzanti, alla ciclicità dei processi naturali diventa un merito, un progresso, e non il vile privilegiare una fuga dal reale, un temibile idealismo originario, un’umiliante astrazione intellettuale in seno a una wasteland… una terra desolata. Spirito, mente, pensiero sono tutti avatar che indicano una fuga da un disordine naturale – tutto ciò che è naturale, infatti, venne sempre stigmatizzato come disordine – per costruire un ordine artificiale. Un ordine per sé, a partire da un disordine per sé, in cui l’Animale, questo scioccante singolare generale, mutò nel nostro più intimo rimosso.

L’Occidente e l’Europa, di conseguenza, furono questa fabbrica di sapere intellettuale senza pari, poiché nati da un modello intellettuale incorruttibile, quello pagano, “in cui per la prima volta si è effettuato il passaggio decisivo dal linguaggio comune, per natura empirico e approssimativo, al ragionamento universale, astratto”. Grazie al quale l’Occidente valicò ogni confine geografico, riuscendo a imporre le proprie conquiste intellettuali nel mondo intero, al punto da diventare “la parte preziosa dell’universo terrestre, la perla della sfera, il cervello d’un vasto corpo, una prodigiosa macchina civilizzatrice”, afferma con orgoglio lo stesso Valéry. Al di fuori di tale astrazione: l’arcaico, il barbaro, il non illuminato. L’indotto.

È la cultura che, fin dagli albori, privilegerà il Tempo, il culto superstizioso per la Storia e l’Uomo, per ripudiare lo spazio. Ne farà una divinità, a danno della carne – l’Occidente, il teatro dell’immortalità nella conoscenza.

Tutto lo scibile umano è la grande arte di eludere la temibile esperienza terrena.

Emanuel Lukovskij

In copertina: Gustave Moreau, “Edipo e la Sfinge”, 1864 

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