28 Aprile 2020

“Tutta la razza dei letterati è porca, specialmente di questi tempi”. In Messico con Antonin Artaud

L’indigenza è necessaria per indignare, per gratificare il foro del precipizio – esigenza di cappio. Nel 1936, quando Antonin Artaud sbarca in Messico, il professor Guido Valeriano Callegari, esperto in civiltà precolombiane, redige la succinta voce “Tarahumara” per l’Enciclopedia Italiana Treccani. Ammiccando verso le sorti umane e progressive, il prof scrisse: “I Tarahumara furono visitati e studiati, per primo, dal gesuita Juan de la Fuente nel 1614, che li trovò allo stato semiselvaggio; presto s’incivilirono relativamente e sono oggi buoni operai e soldati disciplinati”. Artaud, laggiù, Al paese dei Tarahumara, andò – o non andò – per scoprire l’incivile e il selvaggio. Ciò che albeggiava in sé, soprattutto.

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Antonin Artaud sembra l’anagramma di Arthur Rimbaud. Per lo meno, Antonin è la sbilenca custodia grammaticale di Arthur. Rimbaud, in Africa, ha decapitato il linguaggio; Artaud, in Messico, pretende un nuovo linguaggio.

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In troppi si mimetizzano dietro la nudità flagrante di Artaud, compiendo una sorta di rettoscopia letteraria, ostentando ciò che non hanno: la carne nel verbo e la sua carie. Così, la ‘sregolatezza di tutti i sensi’ diventa evasione, irresponsabilità estetica, gioco al massacro – e non, al contrario, il massacro di tutti i giochi.

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In Le Pèse-nerfs (1925) Artaud ha già soppesato l’impossibilità del linguaggio, l’esplicito demonio della lingua che attesta, preserva, conserva. Che ha perso la virilità magica, il vigore rituale – il vizio. “Tutta la scrittura è porcheria. Le persone che escono dal vago per cercar di precisare una qualsiasi cosa di quel che succede nel loro pensiero, sono porci. Tutta la razza dei letterati è porca, specialmente di questi tempi”. Quindi, dieci anni dopo, il Messico. Artaud ha attraversato ogni lingua e decapitazione del nervo verbale: ha letto Rimbaud e divinizzato Poe, ha subito la balbuzie, è stato ricoverato in sanatorio; ha sondato i Surrealisti, ha fatto cinema, ha teorizzato il “teatro della crudeltà”. Si dona il Messico, come espiazione ed esperimento. Non come esplorazione antropologica (Segalen in Cina), come avventura esistenziale (Malraux in Indocina), né come fuga dal mondo (Gauguin a Tahiti) o dal tempo (l’inafferrabile Michaux). In verità, non è Artaud che va in Messico – è il Messico che precipita dentro di lui. Il Messico come gorgo, come tuffo. “Ho scelto il dominio del dolore e dell’ombra… Opero nell’unica durata”, scrive nei Frammenti d’un diario d’inferno. Di ogni cosa svela il cristallino; in contrasto con la cristallizzazione in oggetto ‘culturale’, il culto.

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Nella giungla delle poesie di Artaud, nel 1924, Jacques Rivière vede “goffaggini e soprattutto stranezze sconcertanti”; eppure “mi mandi tutto quello che farà”. Rivière vuole intrattenersi con il mostro che gli è precluso, vuole attingere all’estraneo – tuttavia, senza renderlo pubblico. “Ha il diritto di avermi dimenticato”, fa Artaud – che per quel diritto scrive. Ci si affanna a dimenticare l’indimenticabile.

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Il Messico, in verità, non è esperienza lisergica – Il rito del Peyotl presso i Tarahumara, testo del 1943, scritto quando è internato a Rodez – ma linguistica. Artaud non è affascinato dal ‘paesaggio’ ma dalla grammatica della foresta. “Il paese dei Tarahumara è pieno di segni, di forme, d’effigi naturali, che non sembrano affatto nati dal caso, come se gli dèi, che qui si sentono ovunque, avessero voluto significare i loro poteri con queste strane forme in cui è la figura dell’uomo a venir perseguita da ogni parte… Della montagna o di me non posso dire che cosa fosse stregato, ma un simile miracolo ottico, in quel periplo attraverso la montagna, l’ho visto presentarsi almeno una volta al giorno”. A Jean Paulhan, nel 1937, Artaud cerca di spiegare il vocabolario della natura, i segni che ha scovato: e trova congiunzioni cubiche tra la “montagna Tarahumara” e ciò che “racconta Platone degli atlantidi”. Già sarchiato, dal 1919, dalle droghe, Artaud non cerca l’estasi ma la rivelazione. “Un europeo non accetterebbe mai di pensare che quel che ha sentito e percepito nel proprio corpo, l’emozione da cui è stato scosso, la strana idea che ha appena avuto e che lo ha entusiasmato per la bellezza, non sia sua, e che un altro abbia sentito e vissuto tutto questo proprio nel suo corpo, o allora penserebbe di essere pazzo e di lui si sarebbe tentati di dire che è diventato un alienato”.

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Comunicare è coercizione, esclude l’esclusivo del linguaggio. La letteratura, mercato di codici, castra, gratifica nell’abominio della convenzione – che sia lieta bevanda borghese o esegesi del ‘maledettismo’ è sempre la stessa posa. Si va in Messico come si legge Lautréamont. “Insisto sul punto che Isidore Ducasse non era né un allucinato né un visionario, ma un genio, che non smise per tutta la vita di vedere chiaro quando guardava e attizzava nel maggese dell’inconscio ancora inutilizzato. Il suo e nient’altro”. Qui, l’alterazione del senso in favore del consenso: “la strategia non consiste nel sacrificare il proprio io di poeta e, in quel momento, d’alienato a tutti, ma di lasciarsi penetrare e violentare dalla coscienza di tutti, in modo tale da essere nel proprio corpo solo il servo delle idee e reazioni di tutti”. Il poeta deve sgattaiolare da ogni tentativo di essere compreso, perché lui, compreso in tutto, non esiste, è incomparabile. “Se soltanto si potesse assaporare il proprio nulla, assopirsi nel proprio nulla”.

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Di ritorno dal Messico, il precipizio è ovvio, preparato. Artaud si lega a Cécile Schramme, belga, ricca. A Bruxelles tiene alcune flagranti conferenze sul viaggio messicano. In una di queste urla, “Chi vi dice che sia ancora vivo?”. In un’altra: “Perdonate, ho perso gli appunti che mi ero preparato, vi parlerò dunque degli effetti della masturbazione sui gesuiti”. In seguito ai banali scandali, la famiglia di Cécile – il padre aveva preso a cuore Antonin: lo portava a visitare i capannoni dei tram, appartenenti alla società di trasporti pubblici di cui era il responsabile, perché egli sognasse rotaie volanti e carrozze sottomarine – ordinò alla ragazza di rompere i rapporti con il poeta. Lui, nell’agosto del 1937, partì per le Isole Aran, Irlanda. Il viaggio dura poco: Artaud non ha soldi, dorme dove capita, si crede l’erede di San Colombano. Lo arrestano il 23 settembre a Dublino per vagabondaggio e disturbo della quiete pubblica: cinque giorni dopo è imbarcato per Le Havre. In Francia, lo vediamo nel bozzolo della camicia di forza, comincia il requiem nelle cliniche di cura, fino a Rodez, nel 1943.

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Il Messico resta un’ossessione. “Non sono andato al Messico per fare un viaggio d’iniziazione o di piacere da raccontare poi in un libro che si può leggere accanto al fuoco; ci sono andato per ritrovare una razza che potesse seguirmi nelle mie idee”, scrive nel 1945, da Rodez. “Ero sul Golgota duemila anni fa e come sempre mi chiamavo Artaud e detestavo i preti e dio, perciò fui messo in croce dai preti di Geova in quanto poeta illuminato, e gettato poi in un mucchio di letame”. Malcolm Lowry, lo scrittore di Sotto il vulcano, è a Cuernavaca dal novembre del 1936: mi piace pensare che abbia conosciuto Artaud, e che il poeta gli abbia concesso lucidi consigli di scrittura tra un consesso alcolico e l’altro. Come sempre, la strategia non è scappare, ma scavare, gettare qualche parola nella terra, attendere che cresca l’albero con i corvi al posto dei rami. Dalla lingua cavare il ritmo, perché tutto è liturgia. (d.b.)

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