29 Giugno 2019

Compie 40 anni (e torna in sala) “Apocalypse Now”, il più bel film (grazie a Joseph Conrad e a Mistah Kurtz)

Apocalypse Now è uscito 40 anni fa, nel 1979, e ha avuto due riscritture: una ‘Redux’ del 2001, l’altra, ‘Final Cut’ è stata presentata a Bologna, sarà in sala in autunno. I vecchi dicono che non si fanno più film belli come quelli, i cinici che si pagherà per vedere sempre lo stesso film – per ciò che mi riguarda, ho preso da anni a rileggere gli stessi libri. Un film ha avuto tre scritture: vuol dire che ha la stessa complessità di un romanzo. In effetti, Apocalypse Now deve la sua corrusca grandezza a un romanzo, Cuore di tenebra.

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Cuore di tenebra compie 120 anni, esce per la prima volta sul ‘Blackwood’s Magazine’ nel febbraio del 1899, ed è, a cavallo del secolo, la rivoluzione secolare, la teoria della relatività in letteratura, il romanzo come matrioska di finzioni – mentre il Tamigi s’inabissa nelle mie intimità vi racconto ciò che mi raccontò un giorno un tipo di nome Marlow – la scrittura come regesto dello sfiato onirico, gioco d’equilibrio a lame tra il ‘selvaggio’ e l’ordinario, tra desiderio e atto, indicibile e indecente. “Heart of Darkness è il migliore romanzo breve ch’io conosca e a mio parere l’pera di Conrad più bella e densa. Il racconto è emozionante e profondo, lucido e disorientante… Conrad prefigura i metodi di Kafka e di Beckett”, scrive Cedric Watts.

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Il primo fu Orson Welles. E, lo ammetto, ancora non dormo sonni sereni pensando alla faccia dell’infernale Quinlan sovrapposta a quella di Kurtz, la più ambigua delle creazioni di Joseph Conrad, qualcosa tra Iago e Stavrogin, tra Achab e il Satana di Milton, «allo stesso tempo Faust e Belzebù e anche Lucifero» (Mario Curreli), non fosse che il gran satanasso non spiccica parola nel libro mastro di mastro Giuseppe e appaia più nella calzamaglia di Adamo appena spodestato dal trono – con spinone della colpa in petto – che scanzonato cobra seduttore di anime belle.

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Sia chiaro, dal 1979 siamo pacificati: per noi Kurtz non potrebbe avere altro corpaccione che quello di Marlon Brando in Apocalypse Now, immenso, immane, mefistofelico – lui sì, davvero – mentre si deterge il capo, cioè riemerge arcaico da un blasfemo battesimo, e dice a Willard/Martin Sheen – che poi è il miracoloso Marlow di Conrad –, «Ha mai preso in considerazione le vere libertà? Libertà dalle opinioni altrui. Addirittura dalle proprie». Il genio fu, ripeto, l’innesto del romanzo di Conrad sulla quinta vietnamita di Coppola, far sbarcare il Congo/Inferno nel tempio di Angkor Wat. Basato su un testo di Michael Herr, l’autore di Dispacci, fu John Milius a intersecare frammenti di Conrad nel film – così, una pellicola di guerra, allucinata e corrusca, diventa un’opera epica. Nel 2006 le edizioni Alet hanno pubblicato la sceneggiatura originale di Coppola+Milus, Apocalypse Now Redux. Eppure, il Kurtz di Coppola non è quello di Conrad.

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Con buona pace di Brando, che pure resta l’unico, immortale Kurtz, il demone di Conrad è altissimo e magrissimo, il suo carisma risiede tutto in una presunta capacità oratoria da tenebroso Crisostomo, ma per l’intero periplo del libro non dice nulla. Anzi, potremo pensare che la grandezza di mastro Joseph sia proprio quella di preparare l’evento che non accade. La sua, insomma, è l’arte del levare, del sottrarre, e dunque l’arte dell’enigma. Eppure Cuore di tenebra ci dice tutto ciò che ci occorre sapere di Kurtz: che è la quintessenza dell’uomo occidentale, sommo mirmidone dell’Europa che bracca colonie; umanista e utopista; uomo di lettere, ma anche di musica; sorta di «genio universale». Ci è fornito ogni indizio disponibile, benché in atmosfera nebbiosa, ondivaga, onirica («Mi sembra di cercare di raccontarvi un sogno», dice Marlow al suo uditorio in una frase centrale).

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Mario Curreli è tra i grandi studiosi di Conrad – ha curato il doppio volume delle opere per Bompiani – ma io resto legato alla versione di Ugo Mursia, devoto conradologo, del 1978, che si intitolava Cuore di tenebre. E mi piace quanto scrive Glauco Cambon: “Per Conrad l’angelo da sconfiggere era anche il demonio… Le avventure di Conrad risalgono un Congo tenebroso che è il tracciato della storia e dell’anima umana, fino alle sue origini intemporali, fino alla purezza di un terrore assoluto attinto, sfiorato e abbandonato”.

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Certo, il colpo di genio di Coppola è il finale, il colpo di machete con cui Marlow ammazza Kurtz, mentre si va scannando, ritualmente, il bue. Il finale ipotizzato da Conrad è più raffinato, Marlow lo narra “nella posa di un Budda meditabondo”. Kurtz muore seppellendo il suo segreto – l’uomo che ha scelto di sterminare le proprie convinzioni, dandosi in pasto al selvaggio. Marlow va dalla donna di Kurtz, che lo attende da anni, dopo averne spiato il ritratto – “mi dava l’impressione che fosse bella” – roso dalla curiosità. “Venne avanti, tutta vestita di nero, con una faccia pallida, fluttuando verso di me nel crepuscolo”. Mentre “le tenebre si infittivano”, la donna, di caustica bellezza, dice “era impossibile conoscerlo e non ammirarlo, no?”, e poi scatta, “nessuno lo conosceva meglio di me!”. Mentre la donna, fieramente, implora Marlow – “io l’amavo, l’amavo, l’amavo”, come se amare fosse uccidere – chiedendogli di rivelarle “l’ultima sua parola”, albeggia la bugia, “L’ultima parola che pronunciò fu – il vostro nome”. Lei sospira, si fa di gioia, muta la morte in carisma, “Lo sapevo – ne ero sicura”. Come se orrore e amare fossero la stessa cosa, diremmo, questa è la quota di mistica che ci concediamo.

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John Malkovich è John Malkovich, che ovvietà, ma nel film di Nicolas Roeg, Heart of Darkness (1994), barbaricamente didascalico – Marlow è interpretato da un credibile Tim Roth – è un Kurtz maniaco a malaticcio, appena reduce da Il tè nel deserto.

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Ogni singola frase è un gradino che ci conduce a Kurtz, che prelude all’incontro. Ma Kurtz non parlerà, se non pronunciando la parola ambigua e celeberrima, eraclitea, «The horror! The horror!», dietro cui ogni soluzione e nessuna è possibile. Siamo condotti come dentro un imbuto infernale per scontrarci contro quella orrenda risposta. Che riguarda Kurtz o ogni essere eretto? Che è l’assioma che sigilla la nostra esistenza terrena? Ciascuno faccia la propria partita a dadi e giunga a patti con sé e con Kurtz; Conrad, per ciò che gli riguarda, come ogni gigante, ci pone sul ciglio dell’abisso, non costruisce il ponticello per passare dall’altra parte – se poi esiste un’altra parte.

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Il potere è uccidere se stessi e poetare sul proprio cadavere, danzando con corpo muto e mutevole sguardo, pronti al commercio come al bosco che cresce sulla schiena.

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Il Kurtz di Conrad parla, o meglio, farnetica, ma non come quello di Coppola. Il quale si prende la briga di leggere Thomas S. Eliot nel momento cruciale del film, e di tenersi sul comodino, oltre a una copia della Bibbia, il libro di Jessie L. Weston, From Ritual to Romance, e quello di James G. Frazer, The Golden Bough, i due libri che, a detta di Eliot, stanno a fondamento della Waste Land. Che poi Eliot amasse mentire come pochi e sviare l’attenzione dei critici occhialuti è un fatto, come è papale l’operazione filologica di Coppola. Che c’entra Eliot con Conrad, a parte il fatto che entrambi sono stranieri – uno è americano, l’altro polacco – catapultati in Inghilterra, e che entrambi hanno cambiato per sempre la storia della letteratura occidentale? Chiamiamola affinità elettiva e riavvolgiamo il nastro.

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La poesia declamata a sorseggi, come un sermone biblico («Siamo gli uomini vuoti, Siamo gli uomini impagliati/… Figura senza forma, ombra senza colore,/ Forma paralizzata, gesto privo di moto»),  da Brando/Kurtz è The Hollow Man di Eliot, che porta in esergo una frase da Cuore di tenebra (“Mistah Kurtz – he dead”) e ambisce a essere la “scatola nera” di quel romanzo breve, il discorso che Kurtz non ha mai pronunciato. Ma cosa c’entra, pigiamo ancora, la Waste Land? C’entra, perché Eliot avrebbe desiderato posizionare lì, all’ingresso della sua opera più nota, la frase di Conrad, degno ringraziamento al maestro. Fu Pound a sconsigliarglielo (in una lettera del 24 dicembre 1921 gli scrisse netto: «I doubt if Conrad is weighty enough to stand the citation»), Eliot chinò il capo e si rivolse a Petronio. Thomas il grande, però, aveva capito qualcosa che a Ezra sfuggiva, cioè che Cuore di tenebra è la riscrittura del libro XI dell’Odissea e assieme del libro VI dell’Eneide, che è una catabasi nelle viscere dell’animo umano, e che il fiume Congo è una specie di Flegetonte, e che Marlow è un pellegrino dantesco privo di Virgilio e di Beatrice – e che per questo, fisicamente e spiritualmente, si smarrisce – e che Conrad è un antico greco perché sa che il nostro destino è irrisolvibile e immodificabile, ma pure un severo pastore perché sa che c’è un’inestirpabile colpa a minarci il cardio.

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«Certi brani mi hanno sorpreso. Non sapevo di avere “un cuore di tenebre” e un’anima di “fuorilegge”. L’aveva il signor Kurtz, e io non l’ho trattato con la tranquilla indolenza di un dilettante. Credetemi, nessuno ha mai pagato più caro di me le righe che ho scritto», scrive Conrad all’amico Arthur Symons nell’agosto 1908. Come ogni genio anch’egli “paga” di persona ciò che ha scritto, ne è martoriato, ferito, zappato. Ma c’è di più. Quella scrittura, terminata nel 1899 e durata tre mesi febbrili, ha qualcosa di straordinario anche per Conrad. Egli è letteralmente sopraffatto da quel libro, come noi dopo ogni lettura, come Coppola dopo averlo letto (per comprenderne il rivissuto delirio durante la lavorazione del film si legga il libro della moglie, Eleanor Coppola, Diario dall’Apocalisse. Dietro le quinte del capolavoro di Francis Ford Coppola, minimum fax, Roma 2006, e il “dietro le quinte” documentato da Fax Bahr e George Hickenlooper in Hearts of Darkness: A Filmaker’s Apocalypse, 1992).

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Andiamo per gradi. L’editio princeps del testo fu pubblicata il 13 novembre 1902 in Inghilterra dalla Blackwood, nella raccolta Youth: A Narrative, and Two Other Stories. I tre racconti lunghi, procedimento che terrà a mente James Joyce, narrano la vicenda più o meno disperata – ogni romanzo di Conrad è il sunto di un’esperienza “limite” – di un uomo nei diversi stadi della sua esistenza. Youth, manco a dirlo, è la gioventù, Heart of Darkness l’età di mezzo, nel mezzo del cammino – di istigazione dantesca –, The End of Tether, il testo meno risolto, l’età ultima, la vecchiaia. In questi racconti c’è Conrad per intero. Il primo è quello più celebre, è il Conrad di The Nigger of the “Narcissus” e di The Shadow Line; l’ultimo, più lieve e più spudoratamente letterario, quello che compete con la scrittura leggiadra dell’amico Henry James, è il Conrad “laterale” di Chance e degli ultimi romanzi. E poi c’è il bubbone, il grumo di Cuore di tenebra. Che aleggia come un solido spettro nei libri maggiori, in Lord Jim e in Nostromo, in Typhoon come in Victory, in cui la figura del “reietto” – che cospicua differenza con l’“inetto” novecentesco! – viene sbozzata, ma è anche qualcos’altro, qualcosa di distinguibile e perentorio, qualcosa di non più replicabile. E che sta lì, come un’incisione e un suggello sullo stipite del “modernismo”. Esso, con quella scrittura tumorale e torta, è il prototipo di ogni “romanzo limite”, azzardato e infernale. Senza di esso William Faulkner e Malcolm Lowry sarebbero qualcosa d’altro, così come l’Hemingway maggiore – quello eterno di The Snows of Kilimanjaro, ad esempio – e Cormac McCarthy. «Qualcosa di umano è più caro per me che tutta la ricchezza del mondo», è l’inciso, ricavato dai Grimm, con cui Conrad marchia la raccolta Youth. È bene leggervi l’indizio di una poetica. Assieme alla frase che Marlow ricama attorno a Kurtz, ma che vale per ogni uomo e per ogni creazione umana di Conrad, sorta di Euripide biblico, «La sua era una tenebra impenetrabile». Tutto qui, cosa «genuina, completa, cristallina, pura», come direbbe Brando/Kurtz. (Davide Brullo)

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