10 Settembre 2019

Addio ad Annalisa Cima, la musa di Montale che stava antipatica a troppi. Il "Diario postumo" fu uno tsunami. Lei si diceva così: “Vivo la contraddizione d’essere angelo ed Erinni”

Nata nel 1941, a Milano, il 20 di gennaio, Annalisa Cima fu per alcuni musa inesorabile per altri donna detestabile. Ne era consapevole anche lei, per altro. In una fosforica Autopresentazione poetica si declinò così: “Vivo la contraddizione d’essere angelo ed Erinni…/ Amo Driadi e Silvani, non i poeti nani/ e le loro orme che chiamano versi./ Odio chierici e conversi, predatori e untuosi lodatori”. Visse da artista, con la spavalda eleganza, appunto, delle muse del primo Novecento, con l’attitudine austera e sagace delle muse di sempre. Sapeva ammaliare, dicono. Akira Kurosawa “presentò una sua mostra di disegni a Tokyo”, frequentò Manzù e Marini, Max Ernst e Picasso, “nel 1967 conosce Murilo Mendes, poeta e critico brasiliano, il musicista Gian Francesco Malipiero, Marianne Moore, Jorge Guillén, Aldo Palazzeschi, Giuseppe Ungaretti, Ezra Pound”. Il sodalizio con Vanni Scheiwiller si concretizza nella elaborazione di diversi “volumetti della collana ‘Occhio magico’”. Fu lui, Vanni – che vado citando – a redigere la biografia sommaria della Cima e a ricordarne l’incontro fatale (ordito dall’editore, per altro): “Nel 1968 incontrò Eugenio Montale ed ebbe inizio una grande amicizia basata su una profonda stima reciproca”. Di quella amicizia lunare – lei 27 anni, lui 72 – è esito Diario postumo, raccolta di poesie sparse (dal 1969 in poi), una specie di controcanto poetico, di canto obliquo come bluff ai critici, affidate – con la promessa d’essere opera postuma, dunque posteriore al poeta, cioè altro più che canto ultimo – alla Cima. Mondadori stampa il tutto nel 1996 e si scatena lo tsunami: davvero è Montale? Ma quanto Montale c’è lì dentro: un grammo, un brufolo, una sberla? I critici si sono messi, nonostante i dati in dote, a misurare Montale, filone aureo della poesia italica, in carati. Per alcuni, il Diario postumo è puro ottone, è fasullo, lo dice anche Wikipedia, l’enciclopedia dei tiepidi (“Diario postumo è, secondo alcuni, l’ottava e ultima raccolta di poesie di Eugenio Montale”; corsivo mio). In ogni caso, Annalisa Cima, “ultima musa di Montale” (così la nota Ansa) è morta, a Lugano, a 78 anni. Anche gli scarsi indizi che ho allineato fornirebbero il destro per una specie di romanzo. Invece, il ‘coccodrillo’ del ‘Corrierone’, per dire, firmato da Paolo Di Stefano, torna sul tema, negando, sostanzialmente, l’autenticità del Diario (si capisce fin dal sottotitolo: “avevano fatto discutere le liriche che la donna sosteneva fossero state composte per lei”), accennando che “nel 2014, il dibattito fu riacceso da nuove ricerche filologiche (di Federico Condello, Alberto Casadei, Paola Italia e altri) che confermavano la tesi di Isella: si tratta di un «falso in toto o in gran parte, frutto di collage o di registrazioni audio». Annalisa Cima ha assistito pressoché in silenzio al ritorno di fiamma dell’affaire attributivo”. A me resta da ricordare la lunga dichiarazione di Maria Corti (su “la Repubblica”, 4 settembre 1997, titolo: Montale dopo il parapiglia), consapevole del lavoro ultimo di Montale (“Mi rivelò allora che stava scrivendo una raccolta di poesie che non avrebbe mai consegnato al Fondo, sia perché sarebbe uscita postuma e per di più in ondate successive a distanza di anni, sia perché esecutrice testamentaria sarebbe stata la giovane amica Annalisa Cima, a cui la raccolta era dedicata”), pure per testimonianza diretta (“alla mia presenza Montale consegnò alla Cima un notevole gruppo di fogli manoscritti”). In questa vicenda, Cesare Cavalleri – che conosceva bene sia la Cima che Montale – fu tra chi lottò per avvalorare l’autenticità del Diario postumo. Senza fanfare da fanatico, per carità, riconoscendo che “il meglio di Montale è prima, altrove, anche se per la conoscenza di un poeta grandissimo come lui è necessario leggere tutto” (“Studi Cattolici”, n. 424, giugno 1996), studiando la vicenda fin dagli esordi, optando, all’epoca, per questa ipotesi: “L’autorevole dubbio di Isella è che la Cima avrebbe colto a volo certe frasi, certe battute, di Montale, provvedendo poi lei a dar loro forma ‘poetica’. Può darsi. Ma non può darsi per tutte le poesie ‘postume’” (su “Avvenire”, 26 luglio 1997). In questo caso, ribatto la sua prefazione al libro di Annalisa Cima, Le occasioni del “Diario postumo”. Tredici anni di amicizia con Eugenio Montale (Ares, 2012), libro che per altro, piuttosto, testimonia il brio narrativo della fatidica musa. Alcuni ricordi, risolti in forma di sketch, sono cammei mirabili, da romanzo, come questo: “Qualche mese dopo, quando cominciammo a frequentarci, Montale volle sapere tutto del mio incontro con Marianne Moore a New York. Nella sua casa al Village, viveva attorniata da animali in miniatura, soprammobili quasi animati che facevano parte del suo mondo poetico. La prima volta che andai a trovarla, al 35 West 9th St., trovai la porta dell’appartamento socchiusa: lo era per lasciar passare i cavi della televisione. Ogni giorno, infatti, Marianne Moore leggeva, in diretta, poesie e racconti per ragazzi. La poetessa, occhi azzurri, testa circondata da un’aureola bianca, un po’ trasognata e un po’ realista (come quando diede uno schiaffo sulla mano del fotografo Ugo Mulas che aveva osato spostare uno dei suoi animaletti di vetro), non provava alcun timore a vivere con la porta aperta, in una zona della città allora abbastanza a rischio. Diceva: «Ho i miei angeli neri per custodirmi», e infatti, di lì a poco, chiamò due ragazze che l’accudivano, in veste di governante l’una, e di segretaria l’altra. Due sudamericane scure come l’ebano e alte come palme”. Anche questo, a onor dei fatti, bisognava dire, della Cima, del suo talento per il cammeo letterario. Ma, si sa, le muse, figure ineffabili, stanno sulle scatole a troppi, lieti di metterle sotto i tacchi anche post mortem. (d.b.)

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«Ho vissuto e vivo in un mondo elitario, nel quale non sono riusciti ad avvilirmi né calunnie né falsità, abituata sempre a considerare solo le persone speciali alle quali ho dato e do affetto e amicizia. Tutti gli altri, il sottobosco e tutti quei discorsi tendenziosi, non mi toccano, ma non perché sia stoica, solo perché non m’interessano. Ho una buona considerazione di me stessa e quindi tutto ciò che infanga e corrompe lo lascio lontano dal mio vivere». Così Annalisa Cima parlava di sé a Montale, nel 1979, su richiesta del poeta. Bisogna partire da questa nativa sprezzatura per capire come mai il legame di amicizia fra un sommo poeta di 72 anni e una poetessa, pittrice e musicista di 27, sia durato per tredici anni, e con un Nobel di mezzo. Montale aveva visto in Annalisa l’alter ego che avrebbe voluto essere, scoprendo in sé un sentimento di paternità e, addirittura, di maternità poetica, impensabile anche per i più fedeli ammiratori del poeta che «spesso», tra il 1920 e il 1927, aveva incontrato «il male di vivere». Annalisa Cima che, dopo averla letta, aveva pregato Montale di non pubblicare sul Corriere, nel 1969, la lusinghiera prefazione al suo primo libro di versi («Lo pregai di lasciarmi camminare sulle mie gambe») era, per il poeta, la persona giusta per accogliere quel nuovo sentimento di paternità/maternità, e alla quale affidare, anche in sede testamentaria, la propria fama attraverso la cura dell’Opera omnia.

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Quanto al Montale «privato», bastano poche citazioni. Montale, 1968: «Non appartengo ai paradisi artificiali di Palazzeschi, né agli inferni lussuriosi di Ungaretti; sono un uomo che ha vissuto al cinque per cento. Appartengo al limbo dei poeti asessuati e guardo al resto del mondo con paura». Questa autodefinizione fa giustizia definitiva delle illazioni (becere) non solo sul legame Montale/Cima, ma anche sui rapporti del poeta con le altre sue ispiratrici, Volpe compresa. Di Annalisa Cima è questa definizione, esistenziale e letteraria, monito per i critici futuri: «Uomo del non-possesso, della fantasia resa realtà, è corso sino alla fine verso immagini che materializzava o, meglio, verso persone che smaterializzava». Dalle pagine di Annalisa Cima emerge un Montale affettuoso e scherzoso, sensibile all’amicizia al punto da condividere quell’ipotesi stravagante di «comune» di artisti che avrebbero lavorato e vissuto insieme. E scopriamo, sotto la maschera burbera del poeta che ci è stata tramandata, un uomo che si diverte a organizzare burle agli amici, Gianfranco Contini compreso, senza rinunciare a permali perfino verso Vanni Scheiwiller, fedelissimo amico e complice, che lo andava a trovare quasi quotidianamente. Certamente la «burla» più riuscita è però quella verso i critici e i lettori futuri, che sta appunto all’origine del Diario postumo. Annalisa Cima ne accenna in breve, ma non si può dimenticare che il Diario postumo è stato oggetto della polemica più aspra e pretestuosa dell’ultimo scorcio del Novecento.

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Che l’autenticità del Diario sia stata messa in dubbio da Dante Isella (1922-2007) è ormai solo il ricordo del più clamoroso abbaglio da cui un critico montaliano sia stato accecato, e spiace che, nella successiva campagna mediatica, si sia distinto anche Giovanni Raboni (1932-2004), amico e poeta da me stimato a diversissimo titolo. Sull’autenticità del Diario postumo non può nutrire dubbi chi abbia un minimo di raziocinio. Ci sono le testimonianze di Maria Corti, di Giuseppe Savoca (che ha perfino pubblicato Le concordanze del Diario postumo), di Rosanna Bettarini, Guido Bezzola, Piero Bigongiari, Marco Forti, Emerico Giachery, Oreste Macrì, Alessandro Parronchi, Silvio Ramat, Andrea Zanzotto, per non parlare della mostra degli autografi allestita a Lugano dal 24 al 26 ottobre 1997. Questo nuovo libro, da cui ricevono luce molte poesie del Diario postumo, non si iscrive come ulteriore e ormai innecessario tassello in quell’antica polemica, bensì va letto come utile commento e, ancor più, come «Occasione» (la parola è inevitabile) per rileggere a mente riposata le poesie dell’ultimo Montale. Certo, ci sono interessanti spunti biografici e metatestuali: per esempio, la completa identità della misteriosa Adelheit, citata da Montale nel Diario del ’71 e del ’72, e nel Quaderno di quattro anni, e che le scarne note di Annalisa Cima al Diario postumo (1996) lasciavano nel mistero. Ci sono i tic e le consuetudini del Montale quotidiano, e la straordinaria complicità dell’amicizia con Annalisa: ma, quel che più conta, è la possibilità di verificare lo stacco letterario che metabolizza «l’occasione» in poesia. L’autocommento affidato da Montale ad Annalisa Cima è un caposaldo inamovibile per i critici presenti e futuri: «I primi tre libri [Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera] sono scritti in frac, gli altri in pigiama, o diciamo in abito da passeggio. Forse mi sono reso conto che non potevo continuare a inneggiare a Clizia, alla Volpe, a Iride, che del resto non esistono più nella mia vita. Quando scrivevo i primi libri non sapevo che avrei raggiunto gli ottant’anni. Passati gli anni, guardandovi dentro ho scoperto che si poteva fare altro, l’opposto anche». Da qui il tono colloquiale, aforistico, ironico e «occasionale» da Satura in poi. Ma c’è di più. Montale prosegue: «Poi c’è un fatto di orecchio, di orecchio musicale (i critici non ne tengono abbastanza conto): ho voluto suonare il pianoforte in un’altra maniera, più discreta, più silenziosa». L’orecchio assoluto di Montale gli consente una spontaneità metrica tanto più stupefacente quanto più sommessa. Prendiamo, per esempio, la seconda strofa di Mattinata:

Ad ogni apparizione
fai rifiorire vegetazioni nuove.
Non hai un cliché:
emergi singolare. È il segno
che travalica gli umani.
A noi, in questo anfiteatro
di brutture, non resta
che ricordo e dulia
qual duplice ristoro.

Verso per verso abbiamo: un settenario / un quinario e un settenario / un quinario / un altro quinario (emergi singolare) / seguito in enjambement da un intero endecasillabo (È il segno / che travalica gli umani) / ancora due quinari / e tre settenari in chiusura. L’apparente «semplicità» del dettato è in realtà un’abilissima e spontanea elaborazione dell’endecasillabo, il metronomo della poesia italiana, nelle sue due componenti (quinari e settenari). È questa l’«altra maniera» di suonare il pianoforte dell’ultimo Montale.

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A proposito di pianoforti, è inevitabile il confronto tra Tentava la vostra mano la tastiera degli Ossi (Opera in versi, p. 42) e Il ritratto, con la differenza che là la giovane Paola Nicoli era colta in un attimo di smarrimento, mentre qui Annalisa Cima è «pronta a spiccare il volo». Ma, per tornare al metabolismo fantastico di Montale («immagini che materializzava, persone che smaterializzava»), esemplare è Il caffetano bianco, in cui la figura della giovane poetessa sulla spiaggia di Forte dei Marmi è meno delineata dalla testimonianza visiva del poeta, che non dalla descrizione che gliene fece Carmelo Bene. Analogamente, la volpe azzurra indossata da Annalisa Cima diventa, per misteriose ragioni di metrica, «muflone blu cobalto» (settenario) nella dedica 20 gennaio o 30 anni.

Un cenno, sia pure in sede impropria come questa, è tuttavia doveroso per la poesia di Annalisa Cima, la cui opera finora pubblicata è racchiusa in Di canto in canto (Longo, Ravenna 2007), con prefazione di Paolo Cherchi. Per la qualità, è sufficiente leggere la poesia tradotta in castigliano da Jorge Guillén (p. 67); ma quel che preme sottolineare è la diversità di tono e contenuti rispetto alla poesia anche dell’ultimo Montale: astratta e «filosofica» la poesia di Cima, gnomica e di cronaca quella di Montale. Del resto, è Annalisa Cima a dichiarare allo stesso Montale che i suoi poeti preferiti sono Ungaretti e Zanzotto.

Resta da sottolineare la centralità della poesia Il clou nel Diario postumo. Annalisa Cima ne riconduce il significato alla «conversione» di Montale da Spinoza a Leibniz, ma Oreste Macrì è andato oltre, in due lettere che ho pubblicato nella Revue des Études italiens (n. 3-4, 1998). In data 5 agosto 1997, Macrì mi aveva scritto: «L’approssimarsi di Montale al cattolicesimo fu lungo e graduale; per molti anni di “non praticante”. La Mosca era cattolica ebrea, affine alla Brandeis, motivo per il quale Montale rinunziò all’invito di recarsi in America. La poesia Il clou del Diario postumo termina: “E fu così che il tuo parlare / timoroso e ardente, mi rese / in breve da ateo credente”. La resistenza “gnostica” fu lunga e duratura; la conversione si operò a mio parere nella seconda dimora in via Bigli a Milano. Rammento che ivi andò a trovarlo il Fabiani, che ne scrisse su Oggi, se non ricordo male. Salito al piano dell’appartamento del poeta trovò la porta socchiusa e scorse Montale inginocchiato davanti alla televisione che ascoltava la Messa». E ancora, il 29 agosto 1997: «Mi confermo nell’idea che l’ultima sua donna, Annalisa Cima, celebrata nel Diario postumo, costituisce per lui la liberatrice e salvatrice. Nella poesia Il clou: “Ratio ultima rerum… id est deus. E fu così che il tuo parlare / timoroso e ardente, mi rese / in breve da ateo credente”. E nella poesia di p. 67 la chiama “voce di salvazione”, vocabolo specificamente spirituale cristiano». Lasciamo impregiudicata, nel segreto delle coscienze, l’ipotesi macriana (che tuttavia condivido), e concludiamo con Montale che, nella poesia di risposta al rimprovero di Annalisa per aver accettato il Nobel, scrisse: «Il tempo degli eventi / è diverso dal nostro».

Cesare Cavalleri

*In copertina: Eugenio Montale e Annalisa Cima. Si conobbero nel 1968

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