23 Giugno 2020

“Più impazienti dell’avvenire che rispettosi del passato”. Il Risorgimento secondo Anna Banti: “Noi credevamo”

“Noi vecchi gufi risorgimentali, che i giovani d’oggi trascurino le nostre glorie e i nostri nomi, più impazienti dell’avvenire che rispettosi del passato. In un certo modo sono con loro”. Con queste parole Domenico Lopresti, il protagonista di Noi credevamo (1967), il romanzo di Anna Banti, la raffinata scrittrice scomparsa 35 anni fa (e nata a Firenze nel 1895), sintetizza la sua vita e il contenuto dell’opera.

Don Domenico, oramai settantenne, scrive il suo memoriale nel 1883 nella casa di Torino, egli sa che è stato un protagonista della storia d’Italia, ma il protagonista di un’opera tragica. La fase del risorgimento italiano per lui ha avuto un esito amaro. L’unificazione nazionale che si sarebbe dovuta compiere con lo sviluppo di uno stato repubblicano, senza monarchi, è fallito. Ha vinto la monarchia di Vittorio Emanuele II grazie all’attenta e intelligente politica di Cavour.

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Sin da giovane, aderente alla Giovine Italia e, nel 1848, a Napoli, uno degli organizzatori della fallita insurrezione contro il regime borbonico, che si conclude con il suo arresto: condannato a trent’anni di carcere per cospirazione, don Domenico ne passerà dodici nella fortezza di Montefusco. Proprio l’esperienza della prigionia sarà la sua vera formazione morale e intellettuale, quella che pensava di avere avuto negli anni giovanili del settarismo. Legge Dante, conversa con i contadini, gli artigiani, finiti in prigione per essersi ribellati a quel regime opprimente e classista, certi che l’Unità d’Italia avrebbe portato l’uguaglianza tra tutti quanti. Lì Domenico impara che l’idea di rivoluzione è diversa in tutti gli essere umani. Intanto, nel carcere giungono le notizie che Garibaldi è sbarcato in Sicilia. I compagni sono in frenesia, pensano che il momento tanto atteso è finalmente giunto. Ma Domenico non si illude, sa che l’unica vera rivoluzione è stata quella del 1848, che avrebbe portato un cambiamento radicale per tutti.  Questo avvenimento è solo l’annessione di uno Stato ormai al collasso, il Regno delle Due Sicilie, da parte di un altro Stato, con una burocrazia ed un esercito più efficiente, e la spedizione di Garibaldi nel sud non è altro che un’azione permessa e voluta da Cavour; alle troppe vecchie ingiustizie ne  susseguiranno altre, nuove: “L’azione vittoriosa dei mille, quella specie di miracolo, rimetteva in gioco le carte ormai senza valore… ma Cavour e Vittorio Emanuele maneggiavano con astuzia per sfruttare a loro vantaggio l’impresa del Generale”.

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Anche se l’esito dell’impresa dei Mille è segnato, Domenico non può non intervenire, perché voglia o no fare il rivoluzionario è il suo mestiere, l’unica cosa che sa fare. Evade dalla prigionia e parte alla volta della Calabria per incontrarsi con le truppe garibaldine oramai sbarcate sul continente, pronte ad arrivare a Napoli. Proprio durante il viaggio per andare incontro all’avanguardia garibaldina, giunge nella terra che gli aveva dato i natali, la Sila calabrese.  Lì incontra i vecchi notabili borbonici che presiedevano i tribunali del ’48, in quel momento intenti a sistemare la coccarda tricolore pronti ad accogliere Garibaldi, mentre dai palazzi aristocratici si moltiplicano scritte inneggianti a Garibaldi e Vittorio Emanuele. “Nessuno credeva più a nulla, solo al potere taumaturgico delle reliquie”.

Quella era la prova dell’esattezza dell’analisi di Domenico a cui si aggiungeva l’eterna cultura nella cultura dello schierarsi sempre con il vincitore di turno.

Lorenzo Bravi

Gruppo MAGOG