30 Agosto 2019

“Siamo tutti per poco ospiti della vita, vivere è solo un’abitudine”: Anna Achmatova è più che un poeta, è un mito

Per una volta, iniziamo dalla fine.

I versi seguenti Anna Achmatova li scrisse negli ultimi anni della sua vita, dopo le tragedie della storia personale e corale e il silenzio stretto intorno a lei dalla sua stessa patria, dopo la morte degli amici scrittori e poeti, vittime tutti delle persecuzioni, delle stragi o dei gulag di regime: Bulgakov, Pil’niak, Marina Cvetaeva, Pasternak, Zoščenko, Osip Mandel’štam. Solo allora, e dopo la fucilazione del primo marito, il poeta Nicolàj Gumilëv, la morte in carcere del secondo e i diciotto anni di campo di lavoro fatti scontare al figlio, solo dopo tutto questo Anna Achmatova venne finalmente riconosciuta anche in Russia – in Europa e in America lo era da tempo – come una delle voci liriche più nobili e pure della poesia russa contemporanea.

Molti poeti più giovani le furono accanto in quegli anni finali, e tra loro un giovane avido di devozione nei suoi confronti: Josif Brodskij, da più parti considerato il suo delfino. Li legava l’amore assoluto per la poesia e un destino umano tristemente affine: con l’accusa di “estetismo” e “disimpegno politico”, Anna fu espulsa dall’Unione degli Scrittori Sovietici nel 1946, Brodksij dall’URSS nel 1972, incriminato di “parassitismo sociale”.

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Quasi in un album è una delle ultime liriche scritte da Anna Achmatova: è una sorta di pensoso consuntivo di una vita, dal tono intimo e spirituale. Forse per tale ragione l’Achmatova volle inserire i versi nella raccolta dedicata al suo ultimo amore: lui, Isaiah Berlin, era allora primo segretario presso l’Ambasciata inglese in Unione Sovietica. La raccolta s’intitola La rosa di macchia fiorisce, un titolo che è quasi un intento programmatico: la fioritura ultima dell’estate prima dell’autunno, l’umiltà della rosa canina. Fiore selvatico, tenace, la piccola rosa selvatica non ha, infatti, bisogno di molta terra né le serve molta acqua: semplicemente resiste. E vive.

Il titolo Quasi in un album fa immediatamente pensare a una collezione d’immagini. Si tratta di una forma d’elegia, ovvero un compianto funebre ma scritto da un’autrice ancora in vita la quale dice, più che lamenta, la morte a venire di se stessa e insieme della propria opera poetica. È, questa, la voce di una donna-poeta dotata della consapevolezza di un veggente, che sa bene qual è stato il suo peso nella poesia del Novecento, in Russia e fuori della Russia. È infine un lascito d’amore, un mormorio di consolazione per colui o per coloro che rimangono, dopo di lei:

Sentirai il tuono e mi rammenterai,
penserai: desiderava la bufera…
Sarà una striscia di cielo accesa di rosso,
e il cuore come allora in fiamme.
E ciò accadrà nel giorno moscovita
In cui abbandonerò per sempre la città,
muoverò verso il bramato riparo,
lasciando in mezzo a voi ancora la mia ombra.

(1961-63)

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L’interlocutore resta indefinito lungo tutti i versi, mentre sola sentiamo la voce di colei che parla. Parla al futuro: dunque già da morta. Il tuono porterà con sé il ricordo di lei, l’amore per la bufera ne ripeterà la passione: una striscia lontana di porpora all’orizzonte accoglierà ricordo e passione. Il colore istituisce il nesso tra il cielo e il cuore, rossi entrambi, carichi di quel color lampone che è il sangue stesso della Rus’, alla cui fonte e per tutta la vita Anna Achmatova bevve a larghe sorsate. Dal cielo alla terra, dall’altezza sin giù al suolo i versi piombano dentro la terra dov’è il “riparo”, metafora ellittica per tomba. Là punta il desiderio.

Eppure un’ombra continuerà ad indugiare sopra la terra, e insieme con quell’ombra si spanderà intorno l’eco di una voce: la risonanza dei suoi versi, di questi versi. La presenza vaga è solo allusa, accennata, ha l’inconsistenza dell’aria. Di colei che ha abbandonato Mosca rimarranno il coraggio – la bufera –  e lo spirito – il rosso –, la forza e lo stoicismo dimostrati nella corsa lungo l’esistenza – il tuono. Rimarrà la poesia.

Questa lirica viene da un trittico, Trifoglio moscovita, il titolo mutuato anch’esso dal mondo naturale. Dalle prime alle ultime liriche, v’è infatti in Anna Achmatova una sorprendente unità di lingua, di temi, di atteggiamento poetico che tutta la vita le fanno seguire esclusivamente un proprio cammino interiore. Disse di lei Brosdkij: “è uno di quei poeti che semplicemente “avvengono”, che sbarcano nel mondo con uno stile e una loro sensibilità unica” (La Musa in lutto, Il Canto del pendolo).

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Quando Anna Gorenko fece il suo ingresso nella poesia russa come Anna Achmatova, prendendo in prestito il cognome della bisnonna tartara, con (le cinque a che sempre secondo  Brodskij collocarono il suo nome “in testa all’alfabeto della poesia russa”), il mondo letterario conobbe una poetessa dalla novità incontestabile e lo stile purissimo, che portava alla poesia versi limpidi come cristalli di rocca e per narrare i temi dell’uomo di sempre sceglieva una semplicità maestosa a renderli solenni, una sintassi chiara e metri classici a farli rilucere, rime precise e frasi brevi ad imprimerli nelle menti e nei cuori.

Quei temi – identici da Omero in poi – potevano costituire forse un abbassamento di tono rispetto alla generazione precedente e tuttavia lo stile essenziale e scarno, dalla laconicità evidente, l’uso di una lingua piana (quasi “non poetica”) servirono ad Anna per porre al centro di gravità poetico l’“Io”, che con lei sa tuttavia dilatarsi all’infinito quando da “Io” si trasforma – con sublimante facilità – in “noi” e quindi in “ognuno”, in “ogni uomo” o in “ogni donna”.

È il caso di questa lirica, dove il “tu” dell’incipit va con naturalezza allargandosi in “voi” nell’ultimo verso: voi che mi avete conosciuta, voi che mi avete letta, voi che mi leggerete anche quando io non sarò più tra voi. Il “giorno moscovita” scopre dietro a sé l’orizzonte di separazione e d’addio che è la morte, e ancora una volta da particolare – quel giorno, a Mosca, in una certa ora, con una certa luce – diventa il giorno che tutti gli uomini, proprio in quanto uomini e mortali, hanno conosciuto o conosceranno. Ecco l’istante degli spazi interstellari senza ora umana, senza luce della terra, il momento staccato per sempre dal tempo in cui – sembra proseguire la voce dell’autrice – il mio l’accento sarà nel tuono e nella bufera, il mio sguardo nella porpora che fascia l’orizzonte, me stessa divenuta solo un’ombra.

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Unendo la tradizione del folklore russo a una “classicità” rigorosa, in gran parte desunta dalla lettura dell’amato Puškin, quella di Anna Achmatova apparve subito una voce poetica nuova che si esprimeva con mezzi classici o, per ripetere le parole di Pasternak, che l’ammirava profondamente, la poesia russa acquistava un’autrice capace di “dire il nuovo verbo nel linguaggio vecchio” (Autobiografia).

Dai classici e dai loro versi Anna Achmatova aveva imparato che, in lei, incanto e stupore poetico non avevano bisogno di canoni formali inconsueti: scrivendo in modo classico, trovava la propria misura e insieme rendeva omaggio a coloro che l’avevano preceduta. “Dire il nuovo verbo nel linguaggio vecchio” significa usare parole “scolpite” per dire quanto è immateriale e sta dentro, cercare di dire le risonanze interiori dell’“Io” lirico, ma utilizzando una lingua tersa e sempre più lineare, raccontare gli istanti che si sottraggono al tempo per riversarli nell’eternità.

Solo così la “Psiche-confusionaria” (tale si autodefinì in Poema senza eroe) poté scrivere quella sorta di registro, d’ininterrotta cronaca dell’anima che furono per lei i versi fin dall’adolescenza. Solo dicendo meno poté dire di più: “capivo fin d’allora/quanto è angusta questa terra” (Né mistero né dolore, 1914 o 1915) scriveva ancora giovanissima. E così, per allargare lo spazio, Anna prese a concentrare il tempo, a renderlo uniforme e superarlo: La corsa del tempo è una sua raccolta e una sua definizione.

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Per valicare i limiti che ogni essere umano conosce e andare oltre la “terra angusta”, pur necessaria alla vita, Anna sceglieva una poesia fondata sull’ossimoro da un punto di vista stilistico e sulla dinamica tra la rivelazione dell’emozione e il suo contrario, il dominio di sé, da un punto di vista tematico, creando una poesia che si svela in un gioco di chiari e scuri, lungo un acuirsi e distendersi, regolare, del conflitto. Eccone alcune tracce:

Al posto di una pacifica gioia
volevamo un dolore che mordesse…

(Mi diverte quando…, 1911, La corsa del tempo)

Per il cuore pulsare è terribile
tanta è in quest’istante la sua pena…

(Sotto l’icona un liso tappetino, 1912, La corsa del tempo)

In questo gioco delle opposizioni, nel movimento che inscena il dramma e fa avanzare i versi, spesso a passo più rapido di quanto l’autrice sembri forse immaginare al principio, l’Achmatova usa i sostantivi come fossero oggetti, nomi che danno una – una sola, inscindibile, irrevocabile – realtà ai suoni. I sentimenti prendono da quelli la forma indistinta di un riflesso che non appartiene a un tempo o una sensibilità particolari bensì all’essenza umana universale, stagliati in una prospettiva del vivere sempre misurata, sempre composta e dunque sempre condivisibile.

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Il suo procedere poetico è esemplare nel celeberrimo Canto dell’ultimo incontro (1911, La corsa del tempo), che registra gli attimi successivi alla separazione, l’ottundimento della volontà, il dolore che strappa ogni percezione e capacità di sentire nella lacerazione intollerabile dell’addio: “infilai nella mano destra/il guanto della sinistra”. Qui tutto un dramma interiore è detto e commentato in una serie quasi terrorizzante di corte parole facili.

Riverbero di sentimenti e allusione continua in poesia coincidevano per Anna Achmatova con la volontà di riferirsi a qualcosa parlando però – ogni volta – di qualcosa d’altro, perché “evocazione” o “vaghezza”, termine molto caro a Leopardi, è appunto andare tra – e oltre – le cose. La varietà di timbro, di suono, di eco diventava in effetti per lei contenuto, norma espressiva.

Ogni qualvolta una parola è nominata o è detta, secondo Benedetto Croce è sempre come lo fosse per la prima volta, e quella parola tornasse ad essere nuova: nel caso dell’Achmatova è una parola sofisticata, propria di una poesia in cui l’eleganza suprema dello stile abbraccia felicemente l’evanescente stilizzazione del Liberty russo, linee tracciate con il nitore splendente della china.

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In vita era stata ben più di un’“ombra”, Anna Achmatova: era stata un ideale, il punto di riferimento fisso per tutta una generazione poetica. La bellezza, l’intelligenza, la bravura straordinarie ne avevano fatto una sorta di mito a Mosca e altrove. La giovane moglie poetessa di Gumilëv diventava “la Musa di Carskoe Selo”, il villaggio presso i boschi amati da Puškin, dove Anna era vissuta bambina con la famiglia. In Francia veniva ritratta da Modigliani. Le sue prime raccolte furono una rivelazione.

Nel suo appartamento di Mosca si riunivano, si stringevano intorno a lei gli amici, i poeti, gli scrittori. Anna sopravvisse a tutti i suoi amici, a tutti i poeti e a tutti gli scrittori della sua epoca. Li rammentò tutti, coloro che erano stati una volta vicini e vivi.

Con tonalità drammatiche da De profundis, testimonianza della propria “insanguinata giovinezza”, si “chinò” spesso in poesia “su di loro, come su una tazza”: le era più facile, in quel modo, cercare di trattenere l’aroma del passato, ricordare il tempo in cui più acuto era il profumo dei fiori sognati. La raccolta è Ghirlanda per i morti (1957).

La lirica Mi chino su di loro rammenta i tre che le erano stati forse più cari: Boris Pasternak, Osip Mandel’štam e Marina Cvetaeva, quelli che in vita Anna chiamava “il grande quartetto”, mentre i più giovani, tra cui Brodskij, erano per lei “il coro angelico”. Di loro, adesso “ospiti sui prati d’oltretomba”, rievoca le presenze quando queste si fanno avvertire nell’ampiezza del cielo – “le vie del cielo” di Pasternak -, le parole di ognuno portate da una folata del vento più lunga, le figure e gli sguardi intravisti nella penombra degli alberi che scuotono le foglie. Un barbaglio, una scheggia di ricordo. Poi la luce varia, il ricordo si sfilaccia e scompare.

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Due sono le voci da tempo scomparse che le sembra di sentire, eppure loro, gli amici, erano quattro una volta: è ancora tutto vero, tutto è là, tutto è uguale. Così com’era vissuta, sempre ribelle e sempre penosamente discordante, Marina non si fa sentire eppure continua a scrivere, adesso presso il muro del giardino, con inchiostro vermiglio e freschezza di fronde. La lirica s’intitola Noi quattro:

Siamo tutti per poco ospiti della vita,
vivere è solo un’abitudine.
Lungo le vie del cielo mi sembra di ascoltare
Il richiamo di due voci.

Due? Ma verso il muro di levante,
fra le macchie tenaci del lampone,
c’è un ramo fresco e scuro di sambuco…
E’ una lettera di Marina.

(1961, Un serto ai morti/Ghirlanda)

Nella prima redazione, il componimento s’intitolava Schizzi di Komarovo, il piccolo centro affacciato sulla costa nordica del Golfo di Finlandia dove Anna Achmatova trascorreva le estati e dove doveva essere sepolta, non molti anni più tardi.

Il dolore patito in vita da Marina è qui quasi purificato nell’immagine del ramo di sambuco, “fresco” spruzzo di corolle candide, quanto resta a ricordare colei che, disperata “anima nata – nel nulla”, accerchiata dalla fame e dal gelo aveva scritto e lontana dalla Russia:

Mi è indifferente tra chi
ammutolire, inghiottire la rabbia,
da quali (…) ambienti
essere espulsa – e ricacciata sempre
nel cerchio dei miei sentimenti.
(…) Intorpidita – trave
superstite di uno steccato
(…) Ma se per strada di colpo compare
un cespuglio, e soprattutto di sorbo… (Nostalgia, 1934).

In Noi quattro, assecondata quell’“abitudine” che è diventata per lei vivere e che ne ha fatto una “Musa in lutto”, dopo Boris Pasternak e Osip Mandel’štam Anna ha voluto ricordare per ultima Marina Cvetaeva e la tragedia smisurata che era stata la sua vita. Intrecciamo dunque, anche noi con lei, questa ghirlanda.

Noi siamo”, “noi” poeti, “noi uomini”: colpisce questo plurale d’esordio, orgoglio e insieme mancanza, dimensione di esseri con fierezza solitari eppure acutamente bisognosi l’uno della comprensione e della vicinanza degli altri. “L’arte: causa comune a cui lavorano individui solitari” – aveva scritto Marina Cvetaeva: di qui discendeva per lei “la fraternità di cui ogni poeta, malgrado la sua solitudine e forse proprio grazie ad essa, è colmo fino all’orlo del cuore.” (L’epos e la lirica della Russia contemporanea). Di qui discende il senso di solitudine, fattosi d’improvviso più ampio e brutale, che un poeta prova alla scomparsa di un altro poeta.

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Se in Requiem o Nell’anno quaranta la disperazione affiora in Anna in una rima scoscesa o un sostantivo morboso, in un’immagine tormentosa o un ritmo spezzato e tagliente come cocci di vetro che s’inseriscono ossessivi nel tema, nelle liriche dedicate agli amici scomparsi tutto ciò dilegua: un riserbo, una misura ancora più pacata sembrano indicare la delicatezza di parlare di loro sottovoce, di presentarsi a loro senza eccessi d’emozione, il desiderio di non turbarne le presenze che ancora sopravvivono accanto a lei. E poi la misura scherma il pudore: loro, gli amici-poeti, non avrebbero mai approvato, mai accettato di servire da pretesti sia pur nobili, al tracimare della piena lirica.

La Ghirlanda fu per Anna Achmatova il suo sforzo di tacitare il dolore e il tentativo di ripristinare la vicinanza di tutte le persone cui era sopravvissuta, di riannodare i fili preziosi dell’amicizia all’ordito dei propri versi. Un poeta non ha bisogno di riconoscimenti bensì di comprensione, ha bisogno non di compagni bensì di compagni in poesia e questa, necessariamente, la può ricevere solo dagli esseri a lui affini o lungo le vie del ricordo, quando si ritrova solo.

“L’Achmatova tentava semplicemente di far fronte ad un’esistenza svuotata di ogni significato; (…) tentava di ammansire un infinito così crudele popolandolo di ombre familiari”: ancora una volta, è Brodskij che parla per lei e di lei. E le sue parole ci fanno meglio comprendere il tono colloquiale, a mezza voce, usato dall’autrice dei versi con quelle “ombre familiari”, quasi li avesse ancora davanti a sé, gli amici, seduti nella poltrona del soggiorno come in una foto scattata al fianco di Pasternak.

Paola Tonussi

(continua)

Gruppo MAGOG