20 Luglio 2019

“La rana è bella come l’angelo serafino”: Angelus Silesius, il mistico che influenzò Rilke e Borges

Arrivano come coltellate, liane di luce che non puoi schivare, serpenti che fanno giubilo nella giugulare. I distici di Silesio vanno assorbiti appena svegli, quando l’alba sfonda l’utero della notte, tenuti sotto la lingua, a sorvegliare la ‘ragione’ e ripeterli, senza ruminare pensiero, altro. “Uomo, nulla è imperfetto: l’arena è simile al rubino/ la rana è così bella come l’angelo serafino”. Basta questa piccola feritoia per avviarci al vivere – il male è non avere parole per dirlo, e muta mutevolezza verso la gioia.

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Angelus Silesius (1624-1677), nasce, il giorno di Natale, nell’anno in cui muore il suo maestro di sguardo, Jacob Böhme: è parte dei grandi mistici di Svevia, forse il più spericolatamente ispirato. Nel Seicento l’uomo guarda la Luna e scopre il ‘metodo’ scientifico (Galileo), impone dubbio e geometria (Cartesio) come modo di studiare il mondo scevro da superstizioni, scopre che l’uomo è e non è, una tribuna di contraddizioni (Shakespeare), che l’immaginazione vince la realtà (Cervantes) e che il fedele è solo al cospetto del male e di Lui, senza mediatore che tenga (Lutero). Alla sfera si sostituisce l’ovale, al cerchio, in cui Leonardo inscrive l’uomo, la spirale in cui svanire: l’arte è teatro, maschera, finzione. Perduto Dio nel groviglio dei ragionamenti, il mistico si aggiorna alla vertigine: la poesia rivoluziona la grammatica, procede, senza mezzi verbali, per associazioni, allusioni, svenimenti. Vagabondaggio e minaccia: creatura che s’intrufola nel buco del creato, nella narice del creatore.

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“Immensurabile è Dio: eppure lo puoi misurare,/ se misuri il mio cuore, poiché da lui è posseduto”; “Uomo, tutto ti ama, attorno a te fa ressa:/ tutto corre a te per giungere così a Dio”. In Silesio, con proprietà d’estasi, i contrasti sono raffinati in fiamma, l’assurdo è trama divina, sconcerto ha valore di concordia. Proprio l’inaccettabile è il segno del divino; ciò che è ‘giusto’ si stanzia nelle leggi umane. Dio ama pretendendo, è dirompente.

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Un amico che mi conosce, mi regala una edizione straordinaria del Pellegrino Cherubico di Silesius. Quella ‘completa’, per così dire, è edita trent’anni fa da San Paolo, per la cura di Giovanna Fozzer e Marco Vannini. La mia, il dono, è una edizione di pregio ma ‘manuale’, da portarsi in giro – e lo faccio, perché, credete, un distico di Silesio è cocaina lirica, se sono annebbiato dal peso umano, apro a caso, leggo, “Dio abita in una luce alla quale non v’è accesso:/ chi non diventa la luce, non lo vede in eterno”. La ha stampata, nel 1990, l’editore La Locusta di Vicenza; la traduzione di alcuni distici scelti è di Giuseppe Faggin, grande studioso di Plotino. A suo avviso il “tono inconfondibile degli epigrammi” di Silesio lo avvicina “alla grande corrente religiosa che dalla Bhagavad-Gita, dal Tap-Te-King discende a Plotino, a Eckhart, a Dante”. Mi basta entrare nei gangli della parola ‘cherubico’: l’evidenza è con Cherubino, l’angelo che secondo San Tommaso è versato in scienza divina; il Cherubino è legato a kèrub che vuol dire pregare. Un canto si avvia nel pellegrinaggio: bisogna lasciare, abbandonare, senza ritorno, sul lastricato del canto.

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Silesio, per eccedenza linguistica – poesia che tormenta l’indicibile con decisione – è il mistico dei poeti. Il legame con Rainer Maria Rilke è testimoniato prestissimo: su Angelus Silesius und Rainer Maria Rilke scrive Wilhelm A. Schulze nel 1958 in “Evangelische Theologie”; d’altronde già nel 1925, su “Il Baretti”, Elio Gianturco, che parla di Silesio come autore mistico che supera i contemporanei “per un più sentito tremore dinanzi alla rivelazione ineffabile”, avverte la prossimità con Rilke (“Se la maggior parte dei conterranei guarda a Rainer Maria Rilke come ad un segnacolo, è, più che per la portentosa perfezione dei suoi canti impeccabili, per quello che in essi manifesta di fiducia inconcussa un’anima che ha sopravvinto il dissidio interiore e conciliatolo in una realtà superna”).

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In particolare, l’affinità diretta è tra questo distico perfetto:

“La rosa fiorisce senza perché: fiorisce perché fiorisce,
a se stessa non bada, non chiede d’esser veduta”

…e questa poesia di Rilke, tra i Sonetti a Orfeo:

Rosa, tu fiore in trono, per gli antichi
eri un calice dal semplice orlo.
Per noi il pieno, innumerabile fiore,
l’oggetto inesauribile.

Veste su veste nella tua ricchezza
avvolgi un corpo che non è che luce;
ma ogni tuo petalo ad un tempo elude
e rinnega ogni veste.

La bellezza è, con violenta naturalezza, e se è tale sparisce, non vuole essere vista – è la visione. Il pudore è una aristocrazia da conventuali al vivere.

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Rilke cerca una parola ‘soprasensibile’, che superi i limiti della poesia europea, dove “la vista, sovraccarica di mondo, sopraffà di continuo” il poeta. Rilke desidera una poesia di “sensazioni estreme, di confine”, dove accada la “partecipazione degli altri sensi” – qui ricorda il Rimbaud della “sregolatezza di tutti i sensi” –, perché “il mondo afferrato contemporaneamente con cinque leve compaia… su quel piano soprannaturale che è appunto il piano della poesia”. La poesia ‘totale’, che tocca tutti i sensi, è la mistica.

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Tra i lettori più accaniti di Silesio – per ragioni d’eminenza bibliografica più che mistica – va detto di Jorge Luis Borges. In un articolo del 2004, pubblicato su “El Trujamán”, Carlos García sintetizza i rapporti tra Borges y Angelus Silesius. Per Borges, Silesio è il mistico-poeta per antonomasia, e ricorre nella sua opera innumerevoli volte. In particolare, in L’altro, lo stesso, nella poesia Otro poemas de los dones, Borges cita “le monete mistiche di Angelo Silesio”, mentre nella lirica Al idioma alemán – in, L’oro delle tigri – il grande scrittore ammette, “Le mie notti sono piene di Virgilio/ ho detto una volta: lo stesso potrei dire/ di Hölderlin e di Angelus Silesius”. Citazioni di Silesio accadono in Altre inquisizioni; in una conferenza del 1977 su La poesia, Borges conclude con il distico della rosa amato da Rilke, perché “un poeta del XVII secolo, dal nome stranamente poetico, Angelus Silesius, ha detto la stessa cosa che io ho detto attraverso un ragionamento, in una poesia”. Borges conosce Silesio dal 1924, la sua edizione del ‘Pellegrino’ è decisamente annotata; Borges fa dei tentativi di traduzione, corrispondenti alla sua ricerca.

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Mi sorprese, con una spada di ghiaccio in mezzo gli occhi, questo distico, “Temere Dio è cosa molto buona, ma è meglio amarlo/ e ancor meglio è esser sollevato in lui oltre l’amore”. Il primo verso sintetizza l’insegnamento biblico: Dio si deve temere (il crisma del Primo Testamento) ed è amore (nel Primo Testamento pretende amore, lo odora, lo lecca, lo raspa, lo rimprovera; nel Nuovo è Lui a farsi amore sovrumano, fino al sacrificio che per troppo amore porta a morte). Ma cosa significa questa amare “oltre l’amore”? Cosa significa farsi amanti frontalieri dell’oltre, a fronteggiare ciò che è al di là dell’amare, perché supera ogni amore – gratificato in desiderio o granitico nella colpa, astrale nella gioia astuto nell’assenza. “Oltre l’amore” – oltre l’incastro della pretesa, l’impero del duello – è cosa disumana, l’ambito del mostro, dove tutto è risolto nel sovrano. Che bello. (d.b.)

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