10 Giugno 2020

“Debbo fallire; a me il fallimento è necessario”. Ritratto di Angelo Fiore, il Kafka italiano

Chi non ha mai sentito chiamare Dino Buzzati il “Kafka italiano”? Questo appellativo mi è sempre sembrato un po’ fuori luogo. Da grande amante del bellunese, sono convinto che la sua scrittura possieda una originalità tutta sua; in secondo luogo, essere accostato a Kafka mi pare un fardello troppo grande da poter sopportare, e si finisce per restarne irrimediabilmente schiacciati. Kafka è stato uno scrittore davvero rivoluzionario, Il processo è una pietra miliare nella storia della letteratura, al punto che venendo accostati al suo nome si finisce bruciati, just like a moth to a flame, e non mi pare il caso di Buzzati.

Perciò, quando si parla di un possibile erede italiano di Kafka, non mi viene in mente Buzzati, bensì Angelo Fiore. Questo nome non dirà assolutamente nulla alla maggior parte dei lettori. Di lui si sa poco o niente: nato a Palermo nel 1908 e morto nel 1986; fu impiegato nella pubblica amministrazione e poi nella scuola come insegnante di inglese. Scoperto da Mario Luzi e Romano Bilenchi, difeso da Geno Pampaloni, pubblica alcuni racconti e una manciata di romanzi tra gli anni ’60 e gli anni ’80, il cui successo va affievolendosi.

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I protagonisti dei suoi romanzi sono sostanzialmente dei falliti, non dei semplici scapestrati o teppisti, ma dei piccoli uomini grigi, figli della burocrazia, davvero svuotati d’ogni cosa, perfino senz’anima, esattamente come lo Joseph K. di quel lontano mattino in cui compì trent’anni. Quasi senza alcun passato, tracciato da brevi lampi o solo suggerito, i protagonisti vagano fra le rovine della provincia italiana: rovine perché la loro realtà si presenta scomposta, frammentaria; dialoghi che non portano a nulla, intese inconcludenti, ripensamenti, tutto pare votato alla vacuità, al fallimento. In una realtà a pezzi, i protagonisti di Fiore cercano uno scopo tra i resti di ciò che un tempo chiamavamo civiltà: quel che resta della famiglia, della scuola, del lavoro. Questi tre pilastri emergono dai suoi romanzi come ruderi inquietanti, gettando ombre ambigue.

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Nei suoi romanzi Il supplente (1964) e L’incarico (1970) i protagonisti cercano una nuova vita, un riscatto, sostituendosi a qualcun altro. Il supplente prende il posto di un altro insegnate e arriva nella scuola come un estraneo che non vuole e non può integrarsi; non è un buon posto, il paese è scialbo e senza qualità, eppure il protagonista ci si insedia quasi per forza, quasi a voler forzare la propria esistenza. Ne L’incarico, Fiore si spinge oltre: il protagonista Salfi, un totale inetto che a detta dei superiori combina solo guai, viene incaricato di seguire le tracce di un collega accusato di furto di denaro, e per fare ciò finisce per insediarsi presso la famiglia di questi, prendendo il suo posto di capofamiglia. Fiore ci vuole mostrare il disfacimento dei ruoli e l’inettitudine allo stadio purissimo di questi personaggi, incapaci di trovare un posto nel mondo. Le loro ombre si confondono con quella di Joseph K., forse non proprio inetto, ma burocrate vuoto e senza una vera e propria attitudine alla vita, in cerca di un riconoscimento anche quando si oppone alle cialtronate del Tribunale. K. non trova pace né al Tribunale, né nella banca in cui lavora; entrambe queste realtà, apparentemente contrapposte, sembrano respingerlo, gli precludono un riconoscimento.

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Il magnifico saggio Il processo di Kafka scritto da Juan-Michel Glikson sviscera l’opera da cima a fondo, fino a presentarci Joseph K. come un prigioniero volontario. In modo meno fine, meno ricercato, i protagonisti di Fiore sono liberi, come libero è il personaggio di Kafka, eppure sembrano agire sotto una costrizione, una Legge, a cui è impossibile sottrarsi. La finezza del Processo sta proprio qui: nessuno costringe mai K. a fare alcunché, le cose gli capitano intorno e se il tal giorno alla tal ora decidesse di non presentarsi all’udienza, non accadrebbe assolutamente nulla. Eppure decide di recarvisi. La stessa autodistruzione la ritroviamo nei personaggi di Fiore, divisi tra la tentazione di una vita monastica e le depravazioni più sfrenate; il tutto però intrapreso così, tanto per fare, senza una vera convinzione. Personaggi in cerca di un ruolo, una nomea, un castigo autoinflitto. Essi si ritrovano in situazioni, ruoli, per via di una forza invincibile, forse un malsano senso di responsabilità. Poi l’ambiente che li circonda sembra un riflesso del loro animo, bambini cenciosi e maliziosi, poca pulizia, gente sciatta e senza qualità, sguattere che cedono alla lussuria. In una parola: squallore. E i personaggi si aggirano come fantasmi, come persone incompiute.

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«Quantunque stanco, non sono ancora vissuto. […] Debbo fallire; a me il fallimento è necessario» si confessa il protagonista de Il supplente. Egli si sente inutile, ignoto e inconoscibile.

«Non sono adatto alla vita; ma non cesso di vivere» dice il protagonista de L’incarico.

Per quanto però l’idea dietro ai romanzi di Fiore sia chiara e forte, qualcosa non funziona. I suoi romanzi non sono sopravvissuti alla prova del tempo; certo, qualche casa editrice minore li ripropone, ma nonostante le lodi di Pampaloni, qualcosa è andato storto. Spesso nel leggere Fiore si ha l’impressione che una tal cosa potesse essere trattata o addirittura scritta meglio. Si crea così una stonatura fra la grande idea alla base del romanzo e l’imperfetta esecuzione, fra l’idea e lo stile. La prosa secca e scarna a volte si scontra con le necessità di un approfondimento; i pensieri dei personaggi irrompono quasi creando una realtà alternativa allo svolgersi dell’azione, forse a voler dare l’idea che dietro una banale conversazione si nasconda qualcosa di più, ma il risultato è un garbuglio non sempre ben riuscito. Alcune situazioni risultano a volte confuse, altre invece sono perfette, paiono uscite da un romanzo di Dostoevskij. Fiore, a modo suo, ci ricorda che la letteratura non è fatta soltanto di vette, ma anche di piacevoli zone intermedie, dove troviamo scrittori che non saranno mai veri e propri “classici” ma che contribuiscono ugualmente a formare la montagna delle Lettere.

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Fiore si erge così, un po’ dimesso, come lo scrittore degli invalidi di spirito (parafrasando Melina Mele), tracciando il volto dell’uomo del Novecento: “un individuo la cui condizione ontologica non è solo l’indolenza morale e l’abulia esistenziale, ma persino l’intorpidimento psicofisico”; e in questa definizione ritroviamo l’identikit di Joseph K. tracciato da Glikson.

Insomma, questo Kafka italiano è stato un Kafka mancato, fallito. Ma quale miglior sorte per il profeta del fallimento, se non quella di fallire egli stesso?

Valerio Ragazzini

*Si segnala il sito http://www.angelofiore.com contenente molto materiale prezioso per la riscoperta dell’opera di Angelo Fiore, in particolare il saggio Temi e forme della scrittura di Angelo Fiore di Melina Mele.

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