Un paio di anni fa la rivista Slavia (Dio benedica le riviste e le preservi dalla morte) dedicava un intero numero alla figura di Andrej Platonov (1899 – 1951) – scrittore russo ignorato e non capito – mettendo in rilievo il valore della sua prosa, la grande capacità linguistica e la libertà narrativa, di “montaggio”, già rilevata nel 1973 da Pier Paolo Pasolini. Questo numero monografico è stato per me una bussola utilissima per orientarmi fra le pagine di Platonov, in particolare in uno dei suoi più celebri racconti: Džan (in Ricerca di una terra felice, Club degli editori, Milano, 1968).
Come racconta Frank Westerman nel suo bellissimo Ingegneri di anime, nella Russia sovietica non era ammessa l’inutilità, tutto era finalizzato ad un unico scopo: la glorificazione della causa socialista. Così anche la letteratura non era che uno dei tanti canali attraverso cui manifestare la vittoria del proletariato, e gli scrittori “sovietici” venivano spesso spediti a visitare le grandi opere d’ingegneria al fine di cantarne la magnificenza. Così nel 1934, in mezzo a un folto gruppo di questi scrittori, si trova Andrej Platonov, lanciato attraverso il Turkmenistan al fine di cantare la costruzione del socialismo in una terra tanto sperduta. Ma la sua è una voce stonata, Platonov è un figlio che impensierisce molto la Madre Russia. Il suo linguaggio è ambiguo, i suoi racconti e romanzi parlano del socialismo, sì, ma non convincono, sembrano nascondere qualcosa di avariato. Emerge un socialismo stantio, un socialismo che sa di vecchia credenza. Platonov non poté certo accedere all’olimpo degli scrittori di regime e sedere accanto a Maksim Gor’kij, sebbene fosse dotato di grande talento. Il suo nome fu ricoperto da una censura silenziosa, senza scandalo. Perché Platonov amava la causa socialista, ma dalla sua penna usciva soltanto una grande tristezza, e il socialismo aveva bisogno di scrittori allegri, felici.
Così, quel viaggio nel Turkmenistan deve aver suscitato negli scrittori diligenti meravigliose pagine sul socialismo capace di domare perfino il deserto, capace di condurre alla felicità i popoli nomadi e selvaggi; ma non certo in Platonov. Da quell’esperienza nascerà il suo racconto lungo Džan (“anima che cerca la felicità” secondo una credenza turkmena), dove un figlio del deserto allevato dal potere sovietico viene rimandato fra le sabbie come un salvatore, per annunziare la lieta novella del socialismo al suo popolo perduto. Ma tutto, fin dal principio, è afflitto da un’invincibile stanchezza, senza alcuna speranza. Non c’è nemmeno una parte in tutto il racconto che faccia intendere una qualche reale volontà di riuscita. Il protagonista, dalle prime battute: “Noi non ammettiamo più l’infelicità”. Già si capisce perché Platonov non piacesse a Stalin; questo socialismo impostato, artificioso, si coglie nelle sfumature, nei toni, e se oggi dice poco, al tempo diceva moltissimo.
Nella sconfinata URSS è facile perdere un popolo. Allora è necessario vagare, scavare nella sabbia, cercare un gregge per berne il sangue, e insegnare a quel popolo cos’è la felicità. Il popolo che il protagonista ritrova, il popolo Džan, è composto da turkmeni, karakalpachi, uzbechi, kazachi, persiani, curdi, belugi e persino alcuni che hanno dimenticato chi sono; e vaga vicino al confine con l’Afghanistan. Il socialismo vuole aiutare questo popolo morente con ogni mezzo necessario, vuole instillare vita in questa gente già morta nello spirito, piegata da anni di privazioni e soprusi perpetrati dai vicini bey. Ma è un popolo già finito; estinto dalla fame e dal lavoro, si trascina nel deserto in cerca dell’oblio. E il socialismo si ostina, si accanisce nel voler “fare la felicità”, quando non ci sarebbe altro da fare che scavare una gran fossa comune.
“Perché gli uomini si orientano sul dolore, sulla rovina, quando la felicità è altrettanto inevitabile e spesso più accessibile della disperazione?” si domanda il protagonista, incapace di comprendere perché il popolo di Džan, il suo popolo, voglia morire. Come si può preferire l’oblio alla felicità? Forse perché quell’ammasso di straccioni senza più una patria non riconosce nella mano tesa socialista la via per la felicità. Forse comprende che la felicità non sta nell’immortalità, nelle grandi opere di ingegneria; anzi, la felicità, come la intendiamo noi, come la intendono i vertici del Partito, non ha nulla a che fare con la vita. Per loro l’esistenza è stata una lunga parabola di dolore e fatica che termina, discende ora fra le sabbie. E anche quando il Partito arriva con i suoi camion di viveri e rifornimenti, il popolo Džan resta accasciato a terra, con la pancia piena, e quando può si alza e si disperde; se anche i singoli individui vivranno, il popolo, l’unità, non è più ammissibile; come a dire che c’è qualcosa, forse un destino, superiore alla volontà dell’uomo. Un destino che mal si sposa con la determinazione del socialismo, abituato a scavare canali per deviare il corso dei fiumi o ad erigere mastodontiche dighe.
Nelle storie di Platonov pare che la felicità sia sempre in arrivo, imminente; eppure sinistra, inquietante. La narrazione sospesa “nell’incerto equilibrio, sempre sul punto di collassare, tra la capacità di immaginare un futuro migliore per l’umanità e una visione segnata dall’antiutopia, in cui il sogno degenera nel delirio diurno, e l’infatuazione per le macchine vira nella patologia psichica” (Paola Ferretti). Dove collocare allora Platonov? Gabriele Mazzitelli, per spiegare Platonov ricorre a Le onde di Pasternak: “Tu mi stai accanto – lontananza del socialismo”. Versi che esprimono la portata esistenziale di un ideale che “si vorrebbe sentire proprio e vedere realizzato, ma di cui al contempo si avverte tutta la distanza e la difficoltà di portarlo a compimento” (Gabriele Mazzitelli). E Džan esprime bene questa distanza, fisica e poi ideale, fra il proposito socialista e una realtà dove spira forte il vento e ricopre di sabbia ogni cosa, compreso un popolo.
Valerio Ragazzini