07 Aprile 2020

“Una ‘cultura’ necessita di comunità, di eventi mirabili. Le Fondazioni non possono sostituirsi allo Stato occupandosi di welfare e sanità”. Dialogo con Andrea Mascetti

Credo che la crisi, che prova la tenuta delle intelligenze, la tensione dei legami, sia salutare. Immediatamente, quando si perde qualcosa, il necessario abbaglia. La crisi, però, chiede concretezza, pazienza, l’intrepido di inoltrarsi nelle stimmate come in un bosco. Piuttosto, la prima, affrettata risposta alla crisi è credere che la cultura – ma cosa intendiamo per cultura? – sia aleatoria, un gioiello per i giorni di festa, un ornamento. Il libro – che, rimarca l’Aie, vive il disastro e che, sussurro io, deve compiere una radiosa trasmutazione – non è catalogato tra i ‘beni essenziali’, ad esempio. Meglio! La sua necessità è al di là dei ‘beni’. Una visione superficiale, frettolosa, ritiene di dover garantire agli italiani soldi e cibo, pancia piena e testa vuota. Ieri, leggendo su “Affari & Finanza” de la Repubblica alcune speculazioni sul nuovo ruolo che avrebbero le Fondazioni bancarie nell’era del virus, non ho arginato la rabbia. Il titolo dell’articolo firmato da Andrea Greco è esemplare. Cambio di rotta delle Fondazioni: meno cultura, più welfare e sanità. Esattamente ciò che supponevo: la ‘cultura’, termine tanto vago da smarrire nella nebbia delle intenzioni ogni identità, è intesa come orpello, decorazione, accessorio. Ma come puoi varcare una crisi se ti manca l’unica cosa in grado di vincerla? Da qui nasce il dialogo con Andrea Mascetti, avvocato, lettore intrepido – a lui devo la scoperta, ad esempio, di Piero Scanziani – che come coordinatore della Commissione arte e cultura di Fondazione Cariplo ha ingaggiato di recente una fiera battaglia per la salvaguardia delle librerie indipendenti, degli editori di genio, della lettura di qualità. In particolare, proprio Fondazione Cariplo ha condotto in questi mesi una consultazione, interrogando esperti nel settore, per capire quali siano i motivi della lettura sporadica, superficiale, poco consapevole che caratterizza il nostro Paese. (d.b.)   

 

Andrea Mascetti, avvocato, coordinatore della Commissione arte e cultura di Fondazione Cariplo

Intanto, per capirci: a suo avviso qual è il valore profondo di una Fondazione bancaria, la sua missione, il suo ‘senso’?

Oggi è molto più difficile dirlo rispetto ai tempi in cui le Fondazioni sono nate. Gli spazi mutanti che stiamo attraversando aprono infinite possibilità di azione, molte delle quali ancora inesplorate. Anche qui i temi della finanza non saranno secondari perché le possibilità, concrete, di intervento dipendono dai flussi di cassa che influenzano le nostre capacità di erogazione. Ma se vogliamo fare un ragionamento di principio non credo che le Fondazioni debbano sostituirsi allo Stato o alle Regioni in materia di Sanità o di assistenza alle persone. Dovranno anzi immergersi nelle loro mission più profonde: la cultura, la ricerca scientifica, i grandi temi ambientali (penso soprattutto all’agricoltura e alle aree rurali e alpine da ripopolare), un localismo consapevole e certamente anche una assistenza comunitaria che non pretenda però di sostituirsi ai grandi moduli che rispondono alla politica.

L’emergenza, come accade spesso, tende ad appiattire il dibattito economico sull’immediato, sull’immediatamente ‘utile’, soffocando una visione completa del tema e del ‘sistema’. Così, leggo su “Affari&Finanza” de la Repubblica, riguardo al prossimo ruolo delle Fondazioni, “è facile prevedere che la torta degli interventi per settore muterà la dimensione delle fette future: più risorse ancora per welfare e ricerca sanitaria, meno per il resto (arte e cultura tra le indiziate di tagli)”. Mi pare una scelta cieca, perfino deleteria: cosa ne pensa?

Come accennavo, non credo che sarà quella la strada, a meno che le Fondazioni non vogliano mutare completamente la propria fisionomia. Non spetta a noi controllare le grandi maree del mondo e, se lo pensassimo, compiremmo un grave peccato di presunzione. Alle Fondazioni credo spetti invece il compito di indicatori, di facilitatori, di alchimisti (e non di apprendisti stregoni) che sappiano porre i giusti ingredienti nelle fucine del misterioso mondo che vedremo avanzare nei tempi prossimi. Ma soprattutto abbiamo il ruolo, come nel caso della cultura, di dare esempi di come le cose possono essere fatte, sì che altri rirendano quegli esempi e li diffondano sui tanti e diversi territori che ognuno di noi vive e abita nel quotidiano. Ma anche lo Stato non può sottrarsi, soprattutto in questo momento, facendosi carico della cultura e dei tanti che lavorano e operano con encomiabile impegno. L’idea di un fondo salva cultura, come molti stanno chiedendo, non è sbagliata; aggiungerei il tema della defiscalizzazione, che se agito ancora più ampiamente di come è stato fatto sino ad ora, e cioè con defiscalizzazioni sugli investimenti in cultura pari al 100%, sarebbe un potente motore per far ripartire il comparto e la filiera che, voglio ricordare, quota all’incirca il 6% del Pil e il 6% dell’occupazione. Il tema delle tasse e dell’Iva andrebbe poi rivisto ampiamente, anche e soprattutto in relazione alle Fondazioni. 

Piuttosto, ancora, vince una idea della ‘cultura’, dell’arte come accessorio, come orpello in fondo inutile rispetto al sistema assistenziale – welfare – e sanitario. Come se l’arte non avesse affinità con il bene, il benessere, la salute. Perché? E cos’è a suo avviso la famigerata ‘cultura’?

Cultura è parola giustamente misteriosa. Noi ci limitiamo a dare servizi culturali.

La cultura la fa la storia, le grandi individualità, forse anche i tempi adeguati. È una illusione ottica che tutti i tempi creino cultura. Il nostro, ad esempio, mi pare che rimpieghi grossolanamente frammenti di culture precedenti, ma non si caratterizzi per una sua cultura; forse, più modestamente, per una sua sociologia… e anche l’etologia ha un ruolo nel moderno, ma il riflesso è quello dell’entomologo.

A causa della tecnica ognuno di noi è diventato uno ‘spazio culturale autogestito’ come si sarebbe detto una volta; una ‘cultura’ necessita invece di condivisione, di comunità, di eventi mirabili. Ecco, forse i tempi della tecnica e della iper comunicazione impediscono che si formi una ‘Kultur’: sono potenze in contrasto tra loro?

Per altro, il sistema editoriale è in una crisi lacerante, si spera salutare. Come Fondazione Cariplo avete inaugurato una ricerca analitica sulla crisi della lettura, del lettore. Può dirci quali sono i risultati più interessanti scaturiti dallo studio?

Il lavoro che stiamo portando avanti è ancora in corso, ma alcune linee di fondo appaiono all’orizzonte.

Parrebbe emergere la necessità di una rinascita della lettura al di fuori dei circuiti normalmente dedicati, tipo quello scolastico, perché non sembra che questi ultimi abbiano dato risultati appaganti negli ultimi anni. Forse anche qui, la burocrazia allontana dalla lettura, e solo in un certo spontaneismo possiamo trovare stimoli per una renaissance. E allora l’idea è di ripartire da strutture nuove e autonome di lavoro. Mi permetto di citare una esperienza straordinaria come quella di Pangea, un modello emblematico di nascita dal basso (o dall’alto?), priva di legami con le strutture e le consorterie ma densa di una libertà espressiva vissuta nella linfa del certosino lavoro quotidiano.

D’altronde il vero tema non è quanto si legge, ma cosa. E qui il problema diventa materia per i mistici.

Librerie aperte sì o librerie aperte no: qual è la sua opinione in merito? Ricordo, per altro, che lei sta compiendo una battaglia per valorizzare le librerie ‘indipendenti’, come luogo civico di scambio, di riparo dall’ovvio. Non crede che uno degli esiti dell’epidemia sia quella di radere al suolo i piccoli presidi della buona editoria, le piccole librerie? 

Certamente sì. Anche se credo, e questo forse in parziale contraddizione con quanto affermato più sopra, che una attività di stimolazione da parte degli artigiani della materia potrebbe aiutare. Faccio un esempio personale: ho letto di una scrittrice azera che ebbe a che fare con il milieu parigino di Jünger. Grazie alle note reti di vendita on line sono riuscito a trovare alcune prime edizioni in francese che mi hanno aperto mondi impensabili e avventurosi. Ecco, oggi un bravo libraio dovrebbe stimolare percorsi e letture, anche ricercate, novello Virgilio. Certo rimane il problema annoso del ‘magazzino’ che se Amazon può permettersi, il piccolo non può certo mantenerselo; ma qui deve intervenire l’ingegno commerciale. Se ci fosse una libreria di Pangea credo che non avrebbe problemi a stimolare curiosità, vendite di libri e appassionati dibattiti anche di questi tempi. Lancio io a voi il guanto di sfida.

Gruppo MAGOG