26 Febbraio 2018

Anche Houellebecq venera il Re Lucertola. Il “nuovo” album dei The Doors: Jim Morrison fa il santone e la nostalgia rende sempre

Jim Morrison sta al limite tra canzone e poesia”. Questo l’esempio portato da Michel Houellebecq, dopo aver constatato che “Ci sono delle ottime canzoni nelle quali il testo non ha una forma poetica particolare, ma quando ce l’ha si aggiunge qualcosa”. Ciò che risulta sorprendente è che a dire simili parole sia proprio l’autore di Le particelle elementari, il quale ha costruito buona parte della sua fortuna sulla decostruzione della cultura sessantottina, cultura a cui i The Doors e Jim Morrison sono senza ombra di dubbio ascrivibili. Eppure è proprio lui, il più accanito demolitore delle distorsioni liberal, quali il culto della giovinezza e il sesso libero (ma solo per alcuni, come dimostrerà in Estensione del dominio della lotta), a esprimere quasi una forma di culto per il Re Lucertola e la sua musica. Ed effettivamente, per quanto reazionari, conservatori e retrivi si possa essere, è difficile non farsi emozionare da quella voce danzante, sensuale, e dionisiaca.

DoorsEra naturale che, in questi tempi infelici e sterili, l’operazione nostalgia assumesse una dimensione epica, fino a portare all’ennesima uscita – oramai annuale – di un nuovo album dei The Doors. Più o meno come nell’avvilente panorama politico attuale, la gente, bisognosa di punti di riferimento, guarda a figure morte e sepolte da decenni, quali Mussolini, Hitler e Stalin. In musica, sono le quattro divinità greche trapiantate a Los Angeles a conoscere una nuova ondata di successo post 2000. Questa volta si tratta della registrazione della performance tenuta dalla band nel lontano 1970, durante la terza edizione del noto festival all’Isola di Wight – sì, proprio quello della canzonetta tradotta in italiano dai Dik Dik (“Sai cos’è l’isola di Wight/ è per noi l’isola di chi/ ha negli occhi il blu/ della gioventù/ di chi canta hippi hippi pi”).

La carriera dei The Doors terminerà bruscamente l’anno seguente e quella sarà una delle loro ultime performance (pare l’ultima filmata, ma le sorprese, quando ci sono in ballo tanti soldi, non sono mai da escludere… Non crederete certo che siano finiti i tesori nel cassetto?). La band è oramai molto diversa dagli esordi. Partiti nel pieno dell’esperienza psichedelica, che caratterizza i primi quattro album in studio, nel ’70, Morrison e company sono giunti alla maturità stilistica e compositiva e si stanno sempre più orientando verso il blues. Quello è stato, infatti, l’anno di Morrison Hotel, da cui in concerto vengono riproposte Roadhouse Blues e Ship of Fools. L’anno seguente, prima della morte del cantante, vedrà la luce L.A. Woman, perfetta fusione tra rock e musica nera.

Morrison, sul palco del Festival, diventa qualcosa di difficile da interpretare. La prova canora che dà è incomparabilmente superiore a quelle a cui aveva abituato il suo pubblico dal vivo e che, diciamocelo francamente, lasciavano spesso a desiderare sul piano tecnico, per quanto coinvolgenti potessero essere. Al contrario, all’isola di Wight, tutto in lui parla di un ripiegamento interiore da prescelto del divino, la cui rivelazione viene poi diffusa attraverso gli amplificatori ai fan. La sua postura è statica, la barba lo nasconde e gli conferisce un aspetto da santone. Non muove un muscolo, non si sposta di un centimetro dal microfono. Rivisto a distanza di quasi cinquant’anni, la sensazione è quella di un certo qual raggelante rigor mortis, molto in linea con la fine imminente. Nel complesso, a ogni modo, il concerto è godibile e restituisce una dignitosa idea della band nella sua ultima veste – forse quella reale e sognata fin dal principio – di bluesmen bianchi. E, in effetti, se si eccettuano When The Music’s Over e The End che non potrebbero essere suonate in altro modo, i restanti pezzi, anche quando non sono blues nella versione originale, in questo live suonano sicuramente tali. È, per esempio, il caso di Break on Through (To The Other Side) leggermente rallentata e dal sound meno sincopato e bosanoviano. Back Door Man, il grande classico del Chigago Blues scritto da Willie Dixon e inciso per la prima volta da Howlin’ Wolf, che compariva nel primo album della band di Los Angeles, viene qui ripulito da qualsiasi suono troppo acido e riportato quasi ai fasti della prima versione originaria del ’61. The End usata, come al solito, alla stregua di un tappeto sonoro di libera improvvisazione per la creatività di Morrison, è ben eseguita ma non brilla. I versi inseriti nella parte centrale della canzone si attagliano al contesto musicale, ma non hanno l’impatto dionisiaco e vitalistico di quelli proposti all’Hollywood Bowl, nel ’68: “Don’t let me die in an automobile/ I wanna lie in an open field/ Want the snakes to suck my skin/ Want the worms to be my friends/ Want the birds to eat my eyes/ As here I lie/ The clouds fly by” (Non farmi morire dentro un’automobile/ Voglio stendermi in un campo aperto/ E voglio che i serpenti mi consumino la pelle/ Che i vermi siano miei sodali/ Che gli uccelli si mangino i miei occhi/ Mentre sto lì/ e le nuvole passano).

I giovani di oggi hanno il piacere di potersi godere tutto questo, come i loro padri non avrebbero mai potuto, con l’audio rimasterizzato e i video in dvd e Blu-ray, su cui si è provveduto a intervenire per correggere la grana della vecchia pellicola e renderla, per quanto è possibile, più nitida. Sorvoliamo poi sul fatto che questi giovani si trovino nella condizione, oltre che di comprare il cofanetto con i soldi dei genitori, di rubare la musica di papà e mamma, perché la loro generazione è tristemente insignificante in tal senso. In un modo totalmente e deterministicamente perverso, ma tutto torna. Questo, però, è un altro discorso.

Matteo Fais

 

 

 

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