05 Giugno 2019

“Con tutti i tuoi sogni intatti”: elogio di Álvaro Mutis, che ha creato il personaggio letterario più enigmatico del secolo

Fu qualcuno – e ne sentii l’appartenenza. Pare che il primo libro di poesie lo abbia pubblicato settant’anni fa, era nato nel 1923, ne aveva poco più di 25, si chiamava La Baldanza. Ma fu l’altro, quello del 1953, dal titolo contrario, in apparenza – perché alla baldoria, all’allegria fa seguito il precipizio e la festa è sempre tra gli speroni – Gli elementi del disastro, a farlo grande. Lo pubblicò a Buenos Aires, era nato a Bogotà e cresciuto, infante, a Bruxelles, perché il papà era un diplomatico colombiano. Mi sentii bene in quel mondo corrugato dal delirio e dall’umidità, dove l’uomo non si lagna in un rione parigino ma vive nell’urlo, in una giungla; amavo quella decadenza senza fine, ispirata a un patriottismo con l’Eden – quella che forse ti figuri nelle mura gialle di Ortigia, l’unica Gerusalemme possibile in Occaso – amavo l’amare come febbre, la conquista come vanità, rischiare ogni fiato per una immagine di donna intravista all’alba, sotto l’acquazzone, e quelle amicizia che durano tra Anversa e l’Africa inquieta, e il fatto che si è perduti e se ne centellina l’estasi. Il linguaggio, poi, lo adoravo: pieno di amido retorico, di spossatezza verbale, di guizzi aurorali, fuori tempo, come chi ricrei Bisanzio nel Mato Grosso. Nelle sue Note per un improbabile curriculum vitae questo scrittore che per anni ho letto come un confidente e spacciato come un segreto, che nelle catacombe dell’io decretavo più grande di Julio Cortázar, incomparabilmente più vasto di García Márquez e – ammetto la bestemmia – più divertente di Borges, si diceva così: “Non ho mai partecipato alla vita politica, non ho mai votato e l’ultimo fatto che a dire il vero mi preoccupa in questo campo e che mi riguarda e interessa in modo pieno e sincero è la caduta di Costantinopoli per mano degli infedeli il 29 maggio 1453. Riconosco di non riuscire a risollevarmi dal viaggio a Canossa dell’Imperatore salico Enrico IV, nel gennaio 1077, per rendere omaggio di vassallaggio al caparbio Pontefice Gregorio VII; viaggio di così funeste conseguenze per l’Occidente Cristiano. Di conseguenza sono ghibellino, monarchico e legittimista”. La nota fu redatta nel 1993, a Città del Messico, e fu sufficiente per indurmi a trasvolare e a stringergli la mano, non fosse che vent’anni dopo, a 90 anni, in quella stessa città, morì, Álvaro Mutis, e io restai con i suoi libri in mano, sentitamente destinati all’oblio per eccesso d’altezza, di luce.

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Álvaro Mutis ha creato uno dei personaggi letterari più remoti e magnetici della letteratura del Novecento. Maqroll il Gabbiere. Maqroll è una specie di Chisciotte con Pascal conficcato in fronte, una sorta di Corto Maltese, un cugino di primo grado del Marlowe di Conrad, un uomo che sceglie il mare per onestà verso la solitudine e sbarca segugio di amori peregrini che continuano a perseguitarlo. Nasce da sempre, dai primi libri poetici di Mutis (dove è censita, anzi tutto, la Preghiera di Maqroll: “Perché hai tolto ai ciechi il bastone con cui laceravano la densa felpa del desiderio che li assedia e li sorprende nelle tenebre?”), poi s’inerpica in romanzi di claustrale bellezza, riassunti nella trilogia “Imprese e tribolazioni di Maqroll il Gabbiere”, redatta tra 1985 e 1989, costituita da La Neve dell’Ammiraglio, Ilona arriva con la pioggia, Un bel morir. Prima, però, per impratichirsi con i detti deflagranti dell’uomo che ha dissipato tutto, bisogna partire con la poesia: la Summa di Maqroll il Gabbiere (Einaudi, 1993) e Gli elementi del disastro (Le lettere, 1997). Poi si prosegue inseguendo la scia dei suoi amici e delle sue elusioni in L’ultimo scalo del Tramp Steamer (stampa Adelphi), Amirbar, Abdul Bashur sognatore di navi, Trittico di mare e di terra (ancora Einaudi). Sono libri che vanno assunti quando non si ha nulla da perdere, sulla soglia di una conversione, se si è pronti a essere preda della propria fuga – e di un ritorno che è sbarco in altrove. Allora, sì, si possono sorseggiare le Storie della disperanza (Einaudi) come trazioni di luce, scrittura che ha gli occhi di Tacito e l’eleganza di un moralista francese, e poi La casa di Araucaíma (Adelphi), a mo’ di addio. Piaceva anche a Fabrizio De Andrè, Mutis, che in una delle sue canzoni più belle, Smisurata preghiera, compie un collage dei testi su Maqroll – ora non so chi se lo fila, chi lo legge con il religioso coraggio di chi fa scempio del giorno, alcuni suoi libri, che mi furono così cari, risultano non più disponibili.

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Ma adesso, chi è pronto per gli occhi ferini di Maqroll che raspano nella tua fame; chi sopporta l’ostilità di un verbo onirico, che decapita il sogno per dilapidarne il sangue; chi si lascia impregnare di una lingua oscura, per metà pitone per metà codice di Giustiniano, aristocratica e spartana, da palazzo e da porto, che non si esporta come un romanzo all’americana ma ti chiede di cavalcarla, di cavalcare la tigre; chi ha l’ardire di farsi imprimere dall’odore vegetale di questa agnizione di felci, a cantare il laido e il letto sfatto, la pelle diafana della donna che sa prodigare la morte, un canto che scombina le Ande fino alla cucina di casa? (d.b.)

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Le piaghe di Maqroll

“Le mie piaghe”, chiamava il Gabbiere le malattie e i malanni che lo portavano agli Ospedali d’Oltremare. Ecco alcune tra quelle che menzionava più di frequente:
Una grande fame che placa la febbre e la nasconde tra la cera dolce dei gangli.
L’incontrollabile trasformazione del sonno in un susseguirsi di squame brillanti che si ordinano fino a rimpiazzare la pelle per un desiderio incontenibile di solitudine.
La scomparsa dei piedi come ultima conseguenza della sua mutazione vegetale in una disubbidiente materia tranquilla.
Qualche sguardo, sempre lo stesso, nel quale il sospetto e il disinteresse assoluto appaiono in proporzione uguale.
Un’ala che il vento nero della notte spinge nella miseria delle navigazioni e allontana ogni volontà, ogni proposito di sopravvivere all’ordine serrato dei giorni che si accumulano come una zavorra senza rotta.
L’attesa gratuita di una grande gioia che ribolle e si prepara nel sangue in onde successive, mai presenti e determinate, ma evidenti dai segni:
Un desiderio irritabile e costante, un’agilità speciale per rispondere ai nostri nemici, un appetito per la selvaggina preparata in un intricato dogma di spezie e la frequenza di lunghi viaggi nei sogni.
Il frettoloso ordine di alte fabbriche lungo i cammini deserti.
La punizione di un occhio fermo nel suo duro rimprovero da squalo che placa la sua furia nella ronda trasparente dell’acquario.
Un appetito facile per certi dolci di maizena tinta di rosa che evocano la parola Marianao.
La scissione del sogno tra la vita in collegio e certe fresche sepolture.

*

Amen

Che ti accolga la morte
con tutti i tuoi sogni intatti.
Al ritorno da una furente adolescenza,
all’inizio delle vacanze che mai ti diedero,
la morte ti insegnerà col suo primo avviso.
Ti aprirà gli occhi sulle sue grandi acque,
ti inizierà alla brezza costante d’altro mondo.
La morte si confonderà coi tuoi sogni
e riconoscerà in loro i segni
che da tempi remoti va lasciando,
come un cacciatore che al rientro
riconosce le sue tracce dal sentiero.

*

“Un bel morir…”

In piedi su una barca ferma in mezzo al fiume
dalle acque che scorrono in un lento mulinello
di fango e radici,
il missionario benedice la famiglia del cacicco.
I frutti, i gioielli di cristallo, gli animali, la selva,
ricevono i brevi segni della benedizione.
Quando scenderà la mano
sarò morto nella mia alcova
dove le finestre vibrano al passaggio del tram
e il lattaio cercherà invano le sue bottiglie vuote.
In quell’ora resterà ben poco della nostra storia,
alcuni ritratti in disordine,
qualche lettera riposta non so dove,
le parole di quel giorno mentre ti spogliavo in mezzo al campo.
Tutto svanirà lentamente nell’oblio
e il grido di una scimmia
lo sgorgare biancastro della linfa
della corteccia ferita del caucciù,
lo sciabordio delle acque contro la chiglia in viaggio,
saranno argomenti più memorabili dei nostri lunghi abbracci.

Álvaro Mutis

*le poesie sono tratte da Álvaro Mutis, “Summa di Maqroll il Gabbiere”, Einaudi, 1993, a cura di Fabio Rodríguez Amaya

 

 

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