I pamphlet, genere che era molto di voga un tempo, sono libretti polemici, sarcastici, spesso economici e per questo popolari, che cercano di gettare un rapido fascio di luce su una qualche questione specifica. Per questa loro natura dovrebbero essere brevi, maneggevoli, buoni da piegare in tasca, da far passare facilmente di mano in mano, da “maltrattare” perfino.
In effetti sono queste alcune delle caratteristiche di Chiudiamo le scuole di scrittura creativa!, libro di Alfio Squillaci edito da GOG edizioni nel 2020.
Il testo affronta un tema che può ben interessare chi legge e scrive molto, oltre che chi lavora in ambito editoriale. Il linguaggio è veloce, coerente con la tipologia di testo, abbastanza colloquiale (a parte qualche termine un po’ desueto che l’autore probabilmente avrebbe potuto evitare data la natura del libro), quasi la stesura riordinata di discorsi fatti in occasione di conferenze. Non mancano qui e là interessanti riferimenti bibliografici legati al tema specifico e a quello della scrittura in generale, testi a volte datati e difficilmente reperibili e questo di per sé potrebbe dire anche qualcosa sul tema trattato: il senso e l’utilità delle scuole di scrittura cosiddetta creativa, dove l’aggettivo serve a distinguerla da quella tipica di altri ambiti (ad esempio scientifico, burocratico ecc.).
Gli interrogativi che si pone l’autore sono centrali: cosa si intende esattamente per scrittura creativa? Ci sono delle caratteristiche che la distinguono nettamente da quella “non creativa”? È concepibile come un insieme di tecniche? Si può veramente insegnare in modo programmatico all’interno di corsi e istituti più o meno formali? Che ruolo hanno nel processo di scrittura le caratteristiche più propriamente soggettive di chi scrive e che rapporto c’è con lo stile e l’invenzione?
Sono tutte domande centrali (ce ne sono anche altre secondarie) che spesso da lettori o appassionati di scrittura ci si è posti e a cui direttamente o indirettamente il libro cerca di dare una risposta. Di solito ci riesce, pur nella sintesi che è caratteristica essenziale di un pamphlet; in qualche caso la risposta appare invece solo abbozzata, un mordi e fuggi che può lasciare chi legge un po’ deluso e con l’acquolina ancora in bocca. Certamente non si possono non condividere alcune tesi: il fatto che nei corsi di scrittura creativa (o narrativa) si possono insegnare alcune caratteristiche importanti che contraddistinguono i buoni racconti, cosa può rendere efficace una narrazione, come usare bene le parole a seconda del contesto di scrittura e degli scopi che ci si prefigge ecc; così come altre non possono essere insegnate: ad esempio come costruire uno stile – nessuno può farlo perché lo stile è soggettivo, unico – né come far nascere nella mente di chi scrive una storia interessante, né tantomeno come amalgamare gli ingredienti tipici di un buon racconto che pure possono essere estrapolati singolarmente dai migliori esempi di scrittura narrativa. Insomma, Squillaci sostiene che non è possibile ridurre la scrittura creativa ad una tecnica (per quanto alcune tecniche ed esempi di buona scrittura bisogna conoscerli), soprattutto perché scrivere è un’arte, ossia un fenomeno umano che implica una buona dose di soggettività e di elementi imponderabili, compresi quelli legati al caso o alle circostanze storico-sociali favorevoli all’accoglimento o al successo di quanto realizzato.
Il rischio principale infatti di una concettualizzazione della scrittura creativa come un insieme ben amalgamato di tecniche è la riduzione della complessità del fenomeno artistico e creativo (nel vero senso del termine) ai fini della sua replicabilità. Ciò riflette da un lato l’influenza di una logica e una filosofia di tipo scientifico-empirista, che tende a spezzettare i fenomeni oggetti di studio per comprenderne i meccanismi che li regolano al fine di controllarli e replicarli in altre circostanze; dall’altro di una concezione economica e materialistica dell’arte, che diventa un prodotto come un altro da riprodurre e vendere col maggiore profitto possibile (e il minor rischio possibile) sul mercato, imponendo determinati modelli di scrittura (di solito molto semplici o minimalisti), educando il pubblico dei lettori a quel tipo di scrittura e aumentando così la probabilità di incontrare il favore dello stesso in caso di vendita. Si tratta di una concezione di fondo che è legata alle correnti del pragmatismo e dell’utilitarismo tipicamente americane, e non è un caso che le scuole di scrittura, già presenti negli Stati Uniti agli inizi del Novecento ma sconosciute in Europa (nonostante la quantità di grandi scrittori presenti nel Vecchio Continente), abbiano iniziato ad attecchire anche da noi a partire dai primi decenni del dopoguerra, contestualmente alla diffusione e al dominio della cultura angloamericana nel mondo. Si tratta quindi anche di un fattore meramente culturale che ha poco di scientifico e di obiettivo.
Il danno principale è, ci dice Squillaci (e come non essere d’accordo), quello del fraintendimento di fondo tra arte e tecnica e dell’appiattimento dell’arte su modelli standardizzati, medi, che sacrificano l’originalità e lo stile – ma anche la visione del mondo dell’autore, che spesso a questi elementi è connessa – alla leggibilità e alla replicabilità dei testi narrativi.
Supportato da deliziose citazioni tratte da opere di grandi scrittori europei dell’Ottocento e del Novecento, Squillaci lascia intendere che la diffidenza verso i fini, le intenzioni e il senso stesso delle scuole di scrittura creativa sia del tutto comprensibile, fino a condurre il lettore alla paradossale conclusione che scuole siffatte servono più a chi non sa scrivere che a chi sa farlo, e che la scrittura (e il testo scritto) non è separabile dall’autore e dal suo bagaglio di esperienze, letture e intelligenza. Probabilmente solo leggendo molto, riflettendo molto, vivendo molto ma anche scrivendo il meno possibile – secondo le considerazioni di Flaubert riportate nel libro – si può ridare dignità all’arte della scrittura. Si tratta di indicazioni apparentemente semplici, di buon senso, che tutti possono seguire ma forse non più compatibili con una società capitalista caratterizzata dall’imperativo della velocità, dell’efficienza e del profitto, e il cui scopo è ridurre ogni ambito complesso dell’umano all’interno del mito della comprensibilità razionale, della riproducibilità seriale e del guadagno poco rischioso. Le scuole di scrittura sarebbero quindi una logica conseguenza di tutto ciò.
Si tratta tuttavia di questioni economiche, materialistiche, che non dovrebbero avere tanto a che fare con l’arte e con altri aspetti dell’uomo connessi alla sua natura, autocosciente e libera, di essere vivente, ma che purtroppo da molto tempo ormai hanno preso il sopravvento nel discorso artistico, rimanendo spesso gli unici elementi capaci di regolare ed influenzare la scena culturale e i fenomeni editoriali.
Marco Nicastro