20 Giugno 2019

“La morte esiste, fa male e impaurisce, ma non avrà mai l’ultima parola”: dialogo con Alessandro Zaccuri

Maria non è un nome, è una protezione, come il manto della Maria di Piero che accoglie anche te, stanco di esodi, sfiancato da lotte interiori e intestine; è talmente duttile e usato fino all’abuso quel nome che non è un nome, giunzione di amore e di amaro, Maria, ma una preghiera, il mignolo dell’esaudire, un anello, l’ultimo annuncio a cui appendersi prima del precipizio. Così, questo libro all’apparenza ‘da camera’ – ma apri una finestra e una luce fa scempio di ogni comodità, costringendoti alla corsa – è fragile e duro come un nome, lo ripeti con intonazione sbilenca e scompare. Dico subito: di Alessandro Zaccuri, che è tanto scrittore da negarlo (al primo romanzo importante, Il signor figlio, Mondadori, 2007, che attraccò al Campiello, ne sono seguiti altri, tra cui Infinita notte e Lo spregio), questo, Nel nome (NN Editore, 2019), è il libro più bello, che giunge da un trionfale remoto. Intorno alla vicenda capitale, che turba con rinnovata atrocità d’affetto – la morte della madre, quando lo scrittore era ventenne – s’incunea l’ossessione per Maria, “il secondo nome di mia madre Anna” (quello nascosto, che adempie l’intenzione di un destino), come se rovesciare quelle lettere, come cubi, significasse entrare nel segreto della vita (“Per me il nome non sta in questo altrove prodigioso, non sta nell’irruzione dell’inesplicabile in una quotidianità che, in ogni caso, non riesce più a spiegare se stessa. Maria sta in ogni Maria che incontro, nello sguardo di ciascuna delle donne che ne portano il nome, a volte in combinazioni che neppure loro sono in grado di giustificare del tutto”). La lingua di Zaccuri è paga, cauta – sarebbe facile, qui, cadere in un deliquio verbale da estatico – di ogni cosa mostra la pietà e il riscatto, non ne nega il male e il suo ricatto né il diabolico (impressiona, per nitidezza espressiva, l’episodio di una donna ‘posseduta’ dalla mania, ‘indemoniata’, incontrata casualmente in treno, verso Roma). Di questo mondo dove la meraviglia è martirizzata dal dolore, e ogni squarcio è bacio e atroce, devozione e urlo, Maria non è la risposta, ma il riparo. “Sono le Marie in incognito, travisate perfino a se stesse per scrupolo di pudore o smania di altezzosità ad appassionarmi di più. Le cerco in continuazione, nei dipinti come nelle pagine del Vangelo, nelle donne che incontro e in quelle che gli scrittori hanno immaginato prima di me”. In una catena di rivelazioni – alcune letture evangeliche, radiose, costituiscono la trama nel quarzo, sotterranea, del libro –, l’ossessione per Maria diventa la stessa del Kurtz di Cuore di tenebra (“Secondo me la fidanzata di Kurtz si chiamava Mary”) e dell’Achab di Moby Dick, di chi, con occhio distillato dalla notte, va nel Golgota dell’uomo. Vorremmo cadere, in effetti, per folgorazione, smobilitare le menzogne, e che esista, anche per noi, quel sussurro di madre. (d.b.)

Parto dal nome. Il nome va esaudito, eseguito o esaurito? Tu parli di Maria e delle tante anonime Marie che s’incaricano di quel nome, di quella storia. Eppure, mi dico, chi ‘cambia vita’, chi svia dal mondo entrando in una qualche clausura, uccide il proprio nome per un altro. I miei amici Servi di Maria, mettevano sempre quel nome, Maria, quasi a sostegno del proprio, parziale. Scusami per questo disagio di segni. Orientami.

No, non credo che entrare nella vita religiosa significhi uccidere il proprio nome: significa donarlo, piuttosto. E si può donare solo qualcosa di prezioso, qualcosa che non ci appartiene del tutto perché è a sua volta esito di un dono. Nella tradizione cristiana il cambio del nome non corrisponde all’invenzione di uno pseudonimo, di un’identità della quale ci si appropria nell’illusione che ci corrisponda maggiormente. Al contrario, è il riconoscersi parte di una tradizione, come testimonia appunto l’uso servita di aggiungere quel “Maria” che illumina ogni altro nome. In questo senso, per me, Maria è il nome più compiutamente cristiano: perché è umile e solenne, quotidiano e non convenzionale, singolare e universale.

Il nucleo forte del libro è il figlio che narra la morte della madre. La dinamica contraria al racconto evangelico, con la madre ai piedi del Figlio ucciso. Proprio le tue riflessioni sul Vangeli, anzi, i tuoi scontri, mi affascinano. Cosa c’è di quel libro che tocca il nido magmatico, sfuggente dell’uomo?

Anche dal punto di vista letterario, i Vangeli sono un testo inarrivabile. Non è possibile, secondo me, ottenere così tanto con così poco, c’è un’economia perfetta tra la stilizzazione e il dettaglio improvviso, che spesso interviene con un realismo lancinante. I Vangeli non sono soltanto racconto della sofferenza, sia chiaro, ma resta il fatto che, quando raccontano la sofferenza, lo fanno con una partecipazione assoluta, con una profondità che disorienta e nello stesso tempo rincuora. La morte di mia madre è una ferita che porto in me da più di trent’anni e che senza dubbio è stata determinante nella mia esistenza: nella mia formazione, oserei dire. È qualcosa che non ho mai saputo leggere al di fuori dell’orizzonte disegnato dai Vangeli. La morte esiste, fa male e impaurisce, ma non avrà mai l’ultima parola: l’ultimo nemico è già stato sconfitto, ecco il cuore dell’annuncio pasquale. Ma per arrivare alla mattina della risurrezione bisogna passare attraverso il terribile pomeriggio del Golgota, attraverso la notte del dubbio che corrisponde al silenzio del Sabato Santo.

Dire ‘scrittore cattolico’ pare una bestemmia. Eppure, con un garbo incalcolato tu usi i testi evangelici a sostegno di un progetto letterario. Una compenetrazione è viva. Che scrittore sei? Come agisce, nell’evento, nell’eventualità, la tua fede?

Non so neppure se sono uno scrittore, e lo dico seriamente. Di sicuro non so bene perché ho scritto Nel nome. Mi sono sempre lasciato guidare da quello che mi interessava, occupandomene in forma di volta in volta narrativa o saggistica, dandomi come unica regola quella di non parlare di me. Non troppo, almeno. Qui questa precauzione è saltata, nonostante i miei continui tentativi di contenere l’elemento personale. La spiegazione che mi sono dato, alla fine, va nella direzione della testimonianza. Questa volta, quello che mi premeva era troppo legato alla mia vicenda interiore per poter essere presentato mediante uno stratagemma di finzione, per quanto verosimile potesse apparire. Ma non ne faccio una questione di metodo: ogni libro per me ha la sua storia e la sua forma, che in questo caso si sono espresse così. Sono persuaso del fatto che, quando si scrive, è sempre di sé che si scrive. È il motivo per cui, se sei cattolico o credente o qualsiasi altra definizione vogliamo adoperare, non puoi fare a meno di far trapelare un po’ di quella fede.  In tutto quello che scrivo, per me è sempre presente una sorta di sottotesto teologico, più o meno evidente a seconda dei casi. Con Nel nome penso di aver toccato una punta di evidenza massima.

Il tuo libro, come spesso accade, è un libro che manda in altri libri e in altri scrittori. Henry James, Toni Morrison, Moby Dick, Cuore di tenebra. E poi, se vogliamo, Apocalypse Now, Star Wars. Rimandi anche all’arte figurativa. Al di là della domanda più banale (qual è il libro che ti ha formato, che ti ha avvinto e avvolto?), volevo chiederti se è proprio della parola aprire ad altre parole, in una sorta di proliferazione di verbi. Intendo: c’è una inaudita ‘apertura’ in ciò che scrivi, non la chiusura in una singola storia, ma una esplosione, piuttosto. Dimmi.

Sì, è la ragione per cui prima affermavo di non essere certo di essere uno scrittore. So, in compenso, di essere un lettore e uno spettatore e un ascoltatore che è stato e continua a essere plasmato dalle opere che incontra. Provo, per questo, un forte sentimento di gratitudine, che cerco di trasmettere ogni volta che ne ho l’occasione. La citazione, per me, non è un cimento erudito, ma un’ammissione di manchevolezza: non trovo le parole, quindi mi servo delle parole di qualcun altro. Con il passare del tempo, l’aspetto visivo sta diventando sempre più importante. Mi accorgo di guardare un quadro nello stesso modo in cui, fin da ragazzo, leggevo poesia: ammirando la struttura complessiva e lasciandomi conquistare da un dettaglio. Può darsi che ci sia qualcosa di ossessivo, in questo. Scrivere, forse, è cercare di superare le proprie ossessioni condividendole con gli altri.

 

Gruppo MAGOG