26 Giugno 2020

Albert Camus vs. Ernst Jünger: l’uomo in rivolta & il ribelle

Nel 1951 accade un parto gemellare. I gemelli, però, sono radicati per la schiena, si voltano di lato, senza vedersi – possono torcere il collo a dismisura, stendere il petto in continente, ma gli occhi tacciono. Per Gallimard, nel 1951, Albert Camus pubblica L’uomo in rivolta; per Klostermann Ernst Jünger stampa Trattato del Ribelle. In realtà, il libro di Jünger s’intitola Der Waldgang, “il passaggio al bosco”. Il titolo è significato nell’incipit, “Passare al bosco: dietro questa espressione non si nasconde un idillio”. Il cuneo, ecco, non è l’uomo, ma il bosco. Un bosco che non appartiene all’etica bucolica, un bosco a cui bisogna apparentarsi. Nel bosco, infatti, si va “non solo fuori dai sentieri tracciati, ma oltre gli stessi confini della meditazione”. Il bosco è l’ambito del rischio, l’abito della prova: puoi abitarlo, domandoti, o morire. Il passaggio al bosco è come l’attraversamento del deserto. Non c’è compenso di contemplazione, ma un patto, una pattuglia, il bivio della profezia. Nel libro di Jünger, tuttavia, si parla del ribelle.

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Tra ribelle e in rivolta la differenza non è minima, ma miliare. Ribelle è chi ritorna alla guerra, chi si solleva in armi. Nella rivolta c’è la possibilità di rivolgere la parola – una parola contraria, in contrasto –, o di volgersi da un’altra parte. C’è, appunto, l’angolo di un’altra possibilità. Non c’è, immediatamente, la guerra. Nel ribelle, invece, al contrario, non c’è più spazio di mediazione, le parole – la dialettica, che dilaga nella città – non servono, si sceglie il bosco per imparare il suono della poiana, l’astuzia della faina, l’organizzazione del branco. La parola francese révolté, va detto, contempla la ribellione e la furia, l’indignazione, il disgusto: pretende, comunque, accezioni molteplici. Nel ribelle qualcosa di inderogabile è accaduto, qualcosa deve compiersi.

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Nel 1951 Camus è già l’autore de Lo straniero e de La peste, tenuto in palmo di mano da Gallimard. Il libro prosegue la riflessione inaugurata da Il mito di Sisifo: lì (era il 1942) si parlava del suicidio (“Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio”); qui dell’omicidio (“Ci sono delitti di passione e delitti di logica. Il confine che li separa è incerto”). Tra uccidersi e uccidere l’organo metafisico è lo scempio. In ogni caso, chi si rivolta, anche solo per il fatto di volgersi in direzione contraria al flusso della massa, lascia uno squarcio, una ferita. Sul proprio corpo, sul viso del prossimo, nell’occhio della Storia. Come si sa, il libro permise a Camus di liberarsi di Sartre: gli pareva il quaderno di un rassegnato. Nel 1951 Jünger si è trasferito in Alta Svevia, a Wilflingen, dialoga con Carl Schmitt e Martin Heidegger, ha da poco pubblicato il diario degli anni dell’occupazione parigina, Irradiazioni, che ha un successo straordinario (ne furono vendute 200mila copie in una manciata di settimane). Il dottor Albert Hofmann l’ha appena introdotto all’estasi dell’Lsd, dal 1949 gli è concesso di pubblicare; proprio quell’anno, nel ’51, gli furono consegnate le spoglie del figlio Ernstel, morto sul fronte italiano. “Il bosco è segreto… il bosco è la grande casa della morte, la sede del pericolo di annientamento… Il bosco fa morire e risorgere simbolicamente”, scrive Jünger. Nel bosco matura l’ombra, nel deserto la luce accecante. Quando pubblica il cosiddetto Trattato del ribelle Jünger è già l’autore di Nelle tempeste d’acciaio e Sulle scogliere di marmo; è un uomo che ha fatto la Prima guerra, ha sessant’anni, diciotto più di Camus. Camus muore, come si sa, nel 1960; lo stesso anno in cui muore Gretha, la prima moglie di Jünger.

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Naturalmente, il tono, l’intenzione, l’oriente e il destino dei due libri è diverso. Camus scrive uno studio per dimostrare che l’uomo, per natura, si ribella all’assurdo di esistere. “Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi”. Il linguaggio di Camus è radicato nello studio, ma non è radicale: le frasi sono nitide, schiette, scarne, ma non rinunciano alla contraddizione. Camus sta costruendo una città – oltre alle arterie essenziali ci sono anche i vicoli ciechi, i vincoli, gli svincoli – ed è bello ascoltarlo mentre racconta di Dostoevskij e di Sade, di Lucrezio e di Lautréamont, di Breton e di Bakunin e di Saint-Just. Leggere L’uomo in rivolta non comporta la rivolta, ma l’ascolto. Camus ci parla, lungo il fiume blu e severo che sega in due la città, indica monumenti, basiliche, cul-de-sac, e a noi viene voglia di continuare questa ricerca tra giacobini e anarchici, nichilisti e rivoluzionari, parteggiando per tutti. A differenza del libro di Jünger, che deve stare in una tasca, come un manuale pronto all’uso, quello di Camus, 400 pagine nell’edizione francese (L’uomo in rivolta è tradotto quasi subito in Italia, nel 1957, per Bompiani, da Liliana Magrini; il manuale di Jünger è tradotto per Adelphi da Francesco Bovoli nel 1990), va tenuto in camera, sulla scrivania, per studiarlo. Jünger scrive tra la schermaglia degli arbusti, dove la luce del sole gocciola; Camus sotto l’aura di una lampada. La lingua di Jünger, piuttosto, è estratta da un ghiacciaio, ha la rarefatta perfezione di ciò che toglie il fiato, è una spina di cristallo che cela regni. Non c’è storia né sapienza, nel libro di Jünger, e pochissime le citazioni: qui una pietra ha più valore delle cronache dei re, un albero celebra l’essere con più forza di una orazione. Il Trattato non tratta di nulla: è il ritratto del Ribelle – esemplificato dal poeta –, è una chiamata, un atto di presa senza trattative. Il libro di Jünger parla di rischio e di sacrificio, di proprietà inderogabile dell’individuo, di potere e di potenza, di morbo e di malattia. “L’equipaggio vaccinato e rivaccinato, depurato dai microbi, aduso alle medicine e di età media assai avanzata ha minori possibilità di sopravvivere di un equipaggio che nulla sa di tutto questo. Un quoziente minimo di mortalità in tempi tranquilli non è la misura di un vero stato di salute che, da un momento all’altro, può rovesciarsi nel suo contrario. Quando addirittura non produca malanni ancora sconosciuti. Il tessuto dei popoli è diventato fragile”.

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Comunque li intendiamo, questi due eventi, la rivolta e il ribelle, devono turbarci, ora.

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Camus sembra preparare ciò che Jünger attua – l’uno tenta di definire il male che l’altro ha già scontato. L’ultimo capitolo de L’uomo in rivolta s’intitola Il pensiero meridiano. “Al meriggio del pensiero, l’uomo in rivolta rifiuta così la divinità per condividere le lotte e la sorte comune. Sceglieremo Itaca, la terra fedele, il pensiero audace e frugale, l’azione lucida, la generosità dell’uomo che sa”, scrive Camus. Seducente quando parla di altri, riduttivo nel rispondere all’etimo del tempo. Itaca è il proprio, la proprietà umana – ma è l’inappropriato che va scelto, Sion, Gerusalemme, l’abbaglio del deserto, l’infedele e l’infecondo, il belato di Dio o del nulla, più che le sorti progressive. In Camus la profondità del linguaggio, estivo – cioè, caduto, caduco; mi riferisco anche a quel libro, bellissimo (perché la caduta è beatitudine, a volte), L’estate – suona rassegnato, appagato. “La lingua può trovarsi in piena decadenza e il poeta venire fuori come un leone dal deserto”, scrive Jünger al termine del suo manuale. Dal bosco, passa al deserto. “Perfino in epoche in cui è decaduta a semplice strumento di tecnici e burocrati, perfino quando per simulare qualche freschezza prende a prestito le forme del gergo, la lingua rimane indefettibile nel suo immoto potere. Il grigio, la polvere, coprono solo la sua superficie. Chi scava più a fondo, in ogni deserto, tocca lo strato da cui sgorga la fonte”. La rivolta non implica altra replica che la compassione – il ribelle crea il nuovo. Il Camus più grande, credo, è quello dei Taccuini, informe, disfatto, disinibito (“Ho scelto la creazione per sfuggire al delitto. E il loro rispetto! C’è un malinteso”), aperto a una purezza ambigua (“Contro la letteratura impegnata. L’uomo non è soltanto sociale. Almeno la sua morte gli appartiene. Noi siamo fatti per vivere verso gli altri. Ma si muore veramente solo per sé”). Quelle parole hanno odore di paglia – possono infiammare. (d.b.)

 

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