07 Gennaio 2020

In onore di Alasdair Gray. “In Paradiso sarò una pantera, voglio questo epitaffio: non ho nulla, devo tutto e lascio il resto ai poveri”

Se ne è andato domenica 29 dicembre lo scrittore e cantore della Scozia contemporanea. È morto a 85 anni Alasdair Gray. Il lettore italiano legge il suo Lanark (1981) in quattro volumi grazie a Safarà e scopre scenari distopici all’insegna della critica sociale. L’opera prese a Gray una trentina d’anni di lavorazione perché voleva letteralmente conoscere quello di cui scriveva. Il tutto si chiude con un repertorio di voci critiche, un “indice plagiario” dove indica al lettore fatuo le sue possibili fonti di ispirazione letteraria. La cosa divertente è che Gray sputacchia così alla voce “Burns, Robert”: “Il suo razionalismo umano e lirico non ha avuto alcun impatto sulla formazione del presente libro. Il fatto è molto più sinistro così che non se si fosse trattato di una fonte acclarata. Vedere Emerson al riguardo”.

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Pausa. Robert Burns (1759-96) è il santo patrono, insieme ad Andrea, della Scozia. Anche oggi, anno di grazia 2020, la festa nazionale cade il 25 gennaio in onore del bardo Robert Burns. Di lui è a disposizione, giusto nelle biblioteche, la traduzione nella ‘bianca’ di Masolino d’Amico. A parte questo, va notato che gli scozzesi non vanno per il sottile – il 25 gennaio si festeggia portando al tavolo in pompa magna, su vassoio, un fegato di pecora. Poi si scaglia al soffitto una parte della poesia di Burns sul fegato, si estrae dall’ugola il barbarical yawp e si affonda il coltello nella carne di bestia.

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Che uno scrittore dichiari di non aver nulla da spartire con l’eroe nazionale la dice lunga sull’orgoglio scozzese. Alasdair Gray ha ribadito sino alla fine sul The Herald scozzese di continuare a sostenere il partito indipendentista. “Nel passato ho scritto molti pamphlet per loro e lo farei anche adesso, e certamente avrebbero una carica critica enorme nei loro confronti”. Anche da questo si riconosce un vero scozzese, da una carica vitale quasi esplosiva. Per dire, sino alla fine Gray ha continuato a dipingere murales pur stando in carrozzella. Questo a lato della grande opera: “Mi interessano storie e leggende, da sempre voglio creare un’epica nuova e sì, Lanark dovrebbe essere un’epica scozzese. I vari riferimenti che sono stati fatti con Finnegan’s wake sono sorprendenti ma io non ci vedo bene al riguardo, quella è un’opera di Joyce che non ho letto con la dovuta attenzione ma che mi ha attratto, di tanto in tanto, e mi ha enormemente divertito”.

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Secondo i suoi estimatori sulla Paris Review del 2016, Lanark è probabilmente quel che si avvicina di più a Ulisse dal fronte scozzese. Gray è un maledetto e dannatissimo grande scrittore. Visto di persona, è sempre digressivo e tratta tutti gli argomenti possibili”. Insomma i complimenti sono volati, l’importante è che ora non subentri il silenzio assordante, il rispetto parlamentare per il caro estinto… Il fatto è però che Gray un po’ se la tirava addosso. Dava spago a chi indicava nella sua frustrazione sessuale giovanile le origini della creatura mostruosa, Lanark. Così sempre sulla rivista fighetta Paris Review: “I primi versi che scrivevo risultavano da frustrazione sessuale o adolescenziale, erano scritti che uscivano dal foro che mi avevano creato le persone che amavo e non c’erano più, se n’erano andate o magari erano morte. Poi ho avuto voglia di scrivere un libro enorme con tutta la mia poesia, qualcosa di sinistro che contenesse un po’ tutta la mia arte”.

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Di nuovo. Che Gray si sentisse estraneo all’influenza del bardo nazionale Burns è tutto sommato una panzana. Lui era, al contrario, in competizione serrata col santo poeta scozzese: l’ultimo lavoro è stata una versificazione della Divina commedia. Dopo i romanzi fiume al modo novecentesco, insomma, Gray voleva afferrare la voce profonda della Scozia, sciogliere la lingua in canto. Intendeva dare forma al suo popolo come Burns fece prima di lui, riuscendovi ad ampio raggio. È impressionante vedere che Steinbeck prese un verso di Burns facendone il titolo di libro su topi e umani e che Salinger ne scelse un altro sul campo di segale creando il titolo The catcher in the rye. Se questo succedeva è perché Burns costruiva versi epici, popolari. Al punto da arrivare fino a Brodskij. Quando stava per volare via dalla Russia con un amico si trovava sopra gli Urali. Non si lasciava dietro mogli o fidanzate, solo i genitori e ripensando ai versi di Burns sulla natura decise che non ce la faceva, voleva tornare indietro. Finì a processo. La poesia impegna a seguire rotte strane.

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Tutto questo per dire che nel silenzio dei media italiani (quando va bene ci sono stati paragrafi battuti con due occhi su wikipedia) se n’è andato un cantore che di qui a cent’anni parlerà ancora a chi è sperduto. Chi è il cantore? Uno come Burns che capisce l’andazzo del mondo e crea poesie di fiamma – Nonostante tutto e tutto:

“Lo vedi quello lì, che chiamano signore,
Che incede impettito, guarda dall’alto e via dicendo?
Magari a centinaia penderanno dalle sue labbra,
Ma lui non è che un pagliaccio, nonostante tutto.
Nonostante tutti e tutto,
Nastri, decorazioni e via dicendo,
L’uomo di mente indipendente
Guarda e ride di tutto ciò”

Il cantore è uno che come Stevenson sta seduto sul cocuzzolo della brughiera, si fa accarezzare dal vento e ti dice: “Cos’è la vita? / Sedere in cima a una brughiera / per vedere l’amore arrivare / e vedere l’amore partire”. Un cantore, in fin dei conti, è uno come Gray che quando gli facevano il questionario ultraterreno aveva la risposta facile.

Cosa si sente in paradiso? “Vento, acqua, canto di uccelli, musica suonata da uomini e conversazioni”.

Quali fantasie diventano vere lassù? “Sarò una pantera ben pasciuta e ci sarà qualcuno al posto mio a dipingere”.

Se ne avessi la possibilità, torneresti tra noi? “Sì, per curiosità. Voglio questo epitaffio: non ho nulla, devo tutto e lascio il resto ai poveri”.

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“Erano i primi anni Sessanta e davo qualche lezione al dipartimento d’arte dell’università di Glasgow. Mi trovavo a dormire in questi alberghi dove la clientela nella hall non era granché interessante e io non ero incline a parlare perché loro non stavano a lungo a sentirmi discorrere di van Gogh e Gauguin. Perciò me ne stavo in camera. Pensavo: “siccome non parlo con loro, non sanno nulla di me, non sono nessuno. Presi a immaginarmi un uomo che fosse più grande di tutti gli altri, un alcolizzato che rifiutava di pensare alla propria vita. Però non capivo nulla del lavoro, della vita sessuale di questo mio personaggio. Importava solo quel suo potenziale che il mondo non avrebbe mai conosciuto. Di qui provai col monologo tenendomi vicino a quel che dice Joyce – la grande arte rimane ferma, solo le arti improprie (propaganda e pornografia) ci scuotono. La vera arte ci fa fermare davanti alla bellezza eterna, alla verità, decidete voi. Però il guaio era che avevo cominciato a scrivere un libro di cose improprie per Joyce: fantasie sessuali e diatribe politiche, quindi doveva rimanere tutto confinato nella testa del mio personaggio. (…) Alla fine questi divenne quanto di più opposto da me per credenze politiche e sessuali. L’avevo fatto diventare uomo al momento migliore della sua vita sessuale, della sua realizzazione sociale, i suoi piaceri si allungavano sempre di più. Per me le cose erano andate al contrario. Ne venne fuori un autoritratto in negativo” (1986)

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Sembra che Gray, sotto la scorza, avesse qualcosa di più morbido da dire. Era della stessa stoffa dei suoi antenati, di Stevenson, di Robert Burns. Qui sotto, per capire il tipo umano scozzese, leggete un medaglione sbalzato con la mano rapida di Stevenson. Il saggio originale è lunghetto e inesistente in italiano, risale al 1879 e finì in Ritratti familiari di uomini e libri. Qui trovate le fughe romantiche di Burns. (Andrea Bianchi)

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Robert Louis Stevenson, Aspetti di Robert Burns

Nelle notti del 1785 si ritrovavano a Mauchline gli uomini e le donne giovani del posto per fare, secondo tradizione, le loro corse inseguendo una penny ball. In uno di quei gruppi danzava Jane Armour, figlia del proprietario della magione, e il nostro don Giovanni dagli occhi scuri. Il suo cane, all’apparenza sensibile come il suo padrone, lo seguiva qui e là nella confusione delle danze. Vi furono chiaramente dei commenti salaci; e Jane sentì il poeta dire al suo compagno – o almeno dovrei immaginare che le cose siano andate così, col lancio di un commento da far ridere tutta la compagnia – insomma lei sentì dire che lui sperava che una delle ragazze lo avrebbe amato così come lui stava lì a coccolarsi il cane.

Qualche tempo dopo, mentre la ragazza stava a stendere i panni sul verde di Mauchline, Robert si avventurò in quella direzione, sempre accompagnato dal cane e questi, stanco della lunga escursione, scorrazzava con tutte le sue zampette nere sui panni appena lavati. Dopodiché i due furono portati ad attaccare bottone; sino al punto che Jane, con un’avance da maschiaccio, domandò se lui avesse poi trovato qualcuna che lo accarezzasse come facevano col suo cane.

È una delle sfortune del don Giovanni di professione che il suo onore gli proibisca di rifiutare la battaglia; sta in battaglia come il soldato romano col suo dovere, o come il medico temprato a tutte le sfide impossibili. Burns raccolse la provocazione; una speranza affamata risvegliò il suo cuore; stava lì una ragazza – carina, semplice per lo meno, se non onestamente sciocchina, e in fondo non contraria alle sue attenzioni: gli sembrava ancora una volta che l’amore stesse lì ad aspettarlo. Avesse saputo la verità! ché questa ragazza facile e col capo scarico non aveva altro in mente che il flirt, il suo cuore dall’inizio alla fine era impegnato con un altro uomo. Una volta di più Burns incominciò quel ben noto processo che porta tutti a buttarsi nella tempesta con caldo affetto. E le prove del suo successo vanno ricercate nei molti versi di quel periodo.

La sua fortuna non era personale; Jane, il cui cuore stava ancora da un’altra parte, cadde davanti a questa fascinazione e presto nel giro di un anno se ne videro le conseguenze. Fu un colpo pesante per questa coppia sfortunata. Stavano a gingillarsi e ora si ricordarono in modo rude dei temi seri di una vita. Jane si riprese e scoprì il disastro delle sue speranze; il meglio che si potesse aspettare era un matrimonio con un uomo estraneo ai suoi pù cari pensieri. Ora poteva esser contenta di ottenere quel che prima non avrebbe scelto. Quanto a Burns, nell’imminenza del casino riconobbe che il suo viaggio di scoperta l’aveva portato nell’emisfero sbagliato – non era, non era mai stato, realmente innamorato di Jane.

Sentitelo: “Contro due cose – scrive – mi fisso come fossero fatali: rimanere addomesticato, e averla come coniuge. La prima, grazie al cielo, non accadrà mai! L’altra, dannazione, mai la compirò!” E poi aggiunge, forse più accomodante: “Se vedi Jane, dille che la incontrerò, che Dio mi aiuti nella mia ora di bisogno”. Si trovarono come d’accordo; e Burns, colpito dalla miseria di lei, se ne venne giù dalle sue altezze di testa indipendente e le diede un’ammissione per iscritto di matrimonio. Punizione del dongiovannismo è creare continuamente false posizioni – tutte relazioni nella vita sbagliate in se stesse, altrettanto sbagliato a rompersi o perpetuare. Questo era un caso del genere.

Un uomo saggio e di parola si sarebbe fatto una risata e avrebbe tirato dritto; stiamo contenti che Burns si fece consigliare meglio dal suo cuore. Quando scopriamo di non poter essere a lungo veri, la cosa migliore è di farsi onesti. Oso dire che uscì da quel rendez vous non molto contento, ma con la coscienza glorificata; e mentre se ne tornava a casa avrebbe cantato il suo pezzo migliore, la nota poesia Come i tuoi servi sono benedetti, Signore! E Jane, d’altro canto, rientrò nei ranghi confidando la sua situazione alla coppia di coniugi a capo del villaggio. Burns e suo fratello stavano intanto mandando in fallimento la fattoria. Il poeta era un pessimo partito per tutte le ragazze di campagna.

Almeno lui non si incensava da solo al modo di don Giovanni perché era stata lei a deviare per lui, era lei la libertina che con un nuovo matrimonio doveva andare a coprire tutto il suo passato. Di questo Burns non  avrebbe sentito una parola. Jane aveva cercato un riconoscimento solo per la buona pace dei genitori e non per un’inclinazione decisa verso il poeta, e presto si mise a distruggere quel foglio; tutti credettero, sbagliando, che così il matrimonio fosse dissolto. Per un uomo orgoglioso come Burns questo fu un colpo d’arresto. La concessione estorta dalla sua pietà gli veniva ribattuta sui denti. La famiglia Armour preferiva andare in disgrazia piuttosto che legarsi a lui. Dal tempo della promessa, peraltro, lui si era affaccendato per ritrovare l’affetto per la ragazza; questa situazione non lo toccava solo nella sua vanità, ma lo feriva al cuore. (…)

Penso che possiamo guardare a Robert Burns in questi suoi primi anni, in quella terra di ruvide brughiere, come al povero tra i poveri con le sue sette sterline l’anno che viene squadrato con fare dubbioso dalle famiglie rispettabili. Però era lui il miglior conversatore, il più celebre amatore e confidente, il poeta laureato. Ed era l’unico che sapesse pettinarsi a modo.

Robert L. Stevenson

*traduzione di Andrea Bianchi

 

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