Il 9 maggio è il compleanno di Alan Bennett: l’arzillo commediografo, classe 1934, trascorre impavido le sue giornate al quartiere ‘bene’ di Londra, lo stesso dove vivevano Marx & Engels e oggi registi come Tim Burton. Per andare a trovarlo e regalarci un’intervista, ci accontentiamo di tradurre un suo pezzo contro la scuola privata inglese. È uscito pochi anni fa, era il 2014, su London Review of Books.
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È chiaro che almeno in Italia nel dopo emergenza le università e le scuole andranno di più sul digitale. Prenderanno il sopravvento quelle telematiche, puramente private, nella generale abdicazione dello stato. Possiamo quindi guardare all’Inghilterra per afferrare il senso di questa problematica: scuola privata contro statale.
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L’Inghilterra soffre certamente molto più dell’Italia questa condizione non parificata dove un élite controlla tutto (o quasi) ed è portata in mano fin dalla tenera età sulle soglie della classe politica o dirigente. Discorso analogo per la Francia, dove però si tratta di retaggio napoleonico. Ma nemmeno da noi si va per il sottile: le scuole private segregano i loro allievi dal corso delle cose, lo stato vaneggia nella sua dissoluzione.
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Solo una parola sulla London Review. Non ha la lunghezza dei giornaloni americani, osannati dalla nostra intellighenzia sinistrorsa che manco li legge: quelli inglesi sono più sintetici e hanno una tradizione letteraria da brivido. Pensate che lo Spectator fu fondato nel 1711 dal letterato Addison e resiste ancora benissimo. Pensate soltanto che senza Addison e il suo reportage italiano sui luoghi della peste milanese, con tanto di colonna infame, non avremmo avuto né Foscolo né Manzoni.
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Per tornare a Bennett. Nel 2014, era il primo giugno, il nostro uomo consegnava un discorso favoloso nel tempio del King’s College a Cambridge. Dico ‘tempio’ senza esagerare: tenne un discorso, quasi un sermone, nella cappella di quel collegio secolare. Bennett aveva studiato lì da ragazzo con una borsa di studio universitaria: forte di questa prerogativa, sputò con gran classe sul sistema dell’istruzione privata.
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Qui i ricordi si accavallano: se ripenso all’università, a come mi dovevo spezzare in due tra corsi interni ed esterni, trovo corretto tutto il ragionamento di Bennett contro le scuole private (anche se la mia, la Normale, non era esattamente privata: mal gliene incolga lo stesso). Estate 2014, i ragazzi dell’università statale sono un piccolo pianeta distante, ci si vede a casa loro per bere la sera, si esce insieme senza orari. Gli appelli d’esame estivi: visioni effimere di oasi. Luglio passa con le letture di critica letteraria francese, poi un viaggio di gruppo a Palermo giocando a fare i tuareg con le ragazze. Riprende l’anno accademico, i percorsi si spezzano, scopro Bennett, lo divoro in biblioteca. Non mi sono scordato né di lui, né dei compagni dell’università statale. (Andrea Bianchi)
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Alan Bennett, Fair Play
Predicare è un rischio quando si scrive per il teatro. Non ci si aspetta dal drammaturgo che lo faccia e se così non è glielo si fa notare. I poeti, loro sì, possono predicare, perché hanno opinioni nude. I drammaturghi farebbero meglio a rivestire le loro opinioni con le ambiguità decenti dei loro personaggi fittizi, o magari dissimularle nella boscaglia della trama, a volte così sottile. Basta che i drammaturghi non si rivolgano direttamente alla platea. Ho sempre trovato difficile questa proibizione di predicare, forse perché da ragazzo ero un assiduo fedele della parrocchia di St Michael a Headingley dove ascoltavo molti sermoni che spesso erano più drammatici delle serate del sabato sera al Gran Teatro di Leeds. Quindi se ora mi volete qui in piedi a parlare non sorprendetevi della forma di sermone, che come tutte le parodie è partorita dall’affetto e dalla familiarità e col servizio Anglicano che fu un tempo nelle mie ossa. C’è una simmetria tra il mio discorso odierno e il primo che tenni in pubblico, cinquant’anni fa, al Teatro d’Arti di Cambridge. A parte quel sermone, non ho mai predicato formalmente sino a questa mattina ed eccomi di nuovo qui, a Cambridge. Il mio ingresso fu qui.
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La Cambridge che vidi a 17 anni in dicembre aveva un fiume Cam di ghiaccio, brina spessa copriva tutti i cortili e i quadrangoli conferendo alla città nel suo insieme una bellezza irreale e celestiale. Ed era vuota, come lo erano allora tutti i luoghi di provincia. Mi vedo da diciassettenne che cerca se stesso, mentre passo senza divieti da un college all’altro, mentre mi fermo nel cortile di Trinity al chiaro di luna pensando quanto sia inimmaginabile che io possa accedere e studiare in un posto così benedetto.
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Tutte queste cose sono successe a Cambridge e se cominciate ora a chiedervi perché il discorso abbia poco del sermone e molto della memoria che scivola, prendete in mano i vostri cuori perché qui incomincerò con una vera omelia.
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E per cominciare, ecco che spunta il naso dell’omelia. Teste più fini della mia hanno affrontato il problema dell’istruzione privata e continuano a farlo. Sarei pazzo se proponessi una soluzione. Ma io conosco personalmente una parte del problema. La mia obiezione all’istruzione privata è presto detta. Non è onesta. E dire che una cosa non è onesta non è una risposta. I governi, anche quello attuale, stanno lì per rendere più oneste le circostanze nazionali però nessun governo, di nessuna formazione, ha osato affrontare l’istruzione privata.
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Né so spiegarmi il motivo di ciò. Quando si tenta di sollevare il problema si incomincia a sentire il sussurro “spaccatura sociale” che ne verrebbe fuori, qualcosa come la Dissoluzione dei Monasteri. Di nuovo, l’abbiamo già vista. Ma davvero è così? Non sto dicendo che le scuole pubbliche andrebbero abolite, ma che una riforma graduale che iniziasse dall’amalgamare scuole pubbliche e private tra 16 e 19 anni, per dire, potrebbe essere fattibile e molto poco rivoluzionaria. E chiaramente, questo è il problema.
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In parte questa mancanza di volontà si può rintracciare nella vaga ansietà genitoriale riassunta da Stephen Spender in una poesia degli anni Trenta.
I miei genitori mi separavano dai bambini rudi
Che gettavano parole come pietre e portavano abiti logori.
Versi quasi comici, letti oggi. Eppure siamo ancora a quella parola lì: classe.
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Non mi meraviglierei se voi vedeste in queste opinioni franche l’invettiva di un vecchio. Ora ho ottant’anni, un’età che dà titoli per essere ascoltati e non necessariamente ascoltati. Fino agli anni Ottanta non mi sono preoccupato molto di politica. Poi la cosa divenne inevitabile. Senza esser mai stato troppo di sinistra sono lieto di non aver calcato le orme di quel triste safari da sinistra a destra che suole avvenire in età avanzata, un viaggio che gli scrittori sembrano particolarmente inclini ad affrontare. Guardate Amis, Osborne, Larkin, Iris Murdoch tutti finiti a fare gli spettri irascibili: cliché finale. Basta invecchiare stando fermi ed ecco tutti radicali.
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Sappiamo tutti che dare un’istruzione che non sia tarata sull’abilità ma in funzione della provenienza sociale dei genitori è cosa sbagliata. È uno spreco. L’istruzione privata non è onesta. Chi la dà lo sa. Chi paga per averla lo sa. Chi compie sacrifici per averla lo sa. E chi la riceve lo sa, o almeno da lui ci si aspetta che lo sappia: e se la sua istruzione si conclude senza che questa nozione sia balenata ai suoi occhi, è stata uno spreco.
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Con l’ideologia mascherata di pragmatismo, il profitto è ora il solo metro con cui vanno misurate le nostre istituzioni: una pratica che arriva non dall’esperienza ma dall’assunzione – dalla falsa assunzione – riguardo la natura umana, con avidità e interesse individuale presi come unici attributi credibili. Alla ricerca del profitto, lo stato e tutto quanto al suo seguito viene svenduto: viene sottratto a noi che ne siamo i proprietari di diritto. Il privato è responsabile di iconoclastia per la frenesia con cui si dedica a questa spoliazione degli attributi statali, dei nostri attributi. E questo mi porta a concludere.
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Larkin chiamava sprezzante ruin-bibbing (“mettersi il bavaglino per la pappa visitando le rovine”) un’attività che pratico fin da ragazzo, da quando studiavo qui storia medievale.
Nei miei momenti più oscuri vedo schegge di storia inglese – tetti di monasteri, tombe di alabastro – spogliati dai loro luoghi originari. Riesco a datare questi reperti per me emblematici di quel che è successo all’Inghilterra nel passato. È un avvertimento che riguarda quel sta accadendo, con le debite variabili, nel nostro presente. Il tessuto statale, il welfare state vengono smantellati sotto traccia come una volta si faceva con le chiese in modi molto più rudi: si prelevavano e si svendevano arredi. Un’altra Dissoluzione, ancora una volta, col profitto prevalente su ogni altra considerazione. Chi oggi perpetra quest’azione è rinserrato nella sua ideologia ed è convinto della sua giustezza come chi una volta spogliava le chiese prendendosi così un passaporto per il paradiso.
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Concludo citando una mia piccola opera per teatro, Di qui a quarant’anni, dove facevo parlare così i ragazzi: Inghilterra – in vendita – sito di valore al crocevia del mondo – al momento in vendita per clientela corporate – porzioni all’aperto già pronte all’uso – di relativo interesse storico – necessarie piccole modifiche e migliorie.
Alan Bennett
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Stephen Spender, I miei genitori
I miei genitori mi separavano dai bambini rudi
Che gettavano parole come pietre e portavano abiti logori.
Sulle cosce solo stracci correvano in strada
E scalavano scogliere e si spogliavano in mezzo alle correnti.
Temevo più delle tigri i loro muscoli d’acciaio
Le loro mani che davano strattoni e le loro ginocchia schiacciate sulle mie braccia
Temevo il fare grossolano di questi ragazzi
Che imitavano la mia pronuncia blesa dietro di me sulla strada.
Erano flessuosi quando scavalcavano la siepe
Come cani che abbaiavano al mio mondo. Gettavano fango
Mentre guardavo dall’altra parte, fingendo di sorridere.
Avrei voluto perdonarli ma non sorridevano mai.
* il discorso di Bennett è tradotto per ampi passi e la poesia di Spender che vi è citata è qui