14 Maggio 2021

Il poeta in fiamme: Ahmad Shāmlu

Abramo è l’uomo del grande sì, pari a un anello. Si sa che chi è chiamato è chiamato, soprattutto, a una rinuncia, a non spartire altro che dolore. Nella storia raccontata in Genesi, Dio chiede ad Abramo di lasciare la terra, la casa, la famiglia: la sua vocazione è violenta, impenetrabile (“Vattene dalla terra, dai parenti, dalla casa del padre”, dice Dio). Ad Abramo è chiesto di rinunciare a un figlio, Ismaele, degno di regnare sui deserti, per sempre alieno al padre; gli è chiesto, poi, di ammazzare l’altro, Isacco. In questo, in forma misera, come riprodotta su una sedia, in soffitta, Abramo che accetta di sacrificare Isacco riproduce il fermo turbamento del Padre che ammette l’uccisione del Figlio, morendo in lui, tra gli uomini. Abramo è sigillato nella parola “Eccomi!”. Risponde “Eccomi!”, con energia esclamativa, a Dio; dice “Eccomi!” al figlio che lo aiuta a preparare l’altare del sacrificio; dice “Eccomi!” all’angelo che blocca la sua mano, armata.

Chissà cosa avrà pensato il figlio, Isacco, guardando il coltello brandito dal padre, che fluttuava sopra di lui, come l’arcano attributo di Dio, il segreto. Secondo una storia apocrifa, tra l’istante in cui il padre è certo di uccidere il figlio e quello in cui l’angelo gli blocca il polso, a Isacco sono rivelati i misteri di Dio; qualcosa di simile accade nei tre giorni che separano la morte dalla resurrezione di Gesù, il Cristo. Quel silenzio ha la valuta di un incendio. Nel racconto biblico è Isacco che “spaccò la legna” per l’olocausto, è il figlio che “prese in mano il fuoco”: esiste, in effetti, i poeti lo sanno, una benedizione attraverso l’acqua e una che passa per il fuoco. Nel Corano, Abramo è profeta miliare, “Prendete come luogo di culto quello in cui Abramo ristette!”, è detto nella Sura Al-Baquara; nella Sura As-Sâffât si narra di Abramo che “gettò uno sguardo agli astri”, che distrugge gli idoli di fabbricazione umana, che è costretto alla pena del fuoco (“gettatelo nella fornace!”), finché Allah lo salva. “Abramo hai realizzato il sogno”, è scritto. Credo che tra i sogni e le fiamme, tra il fuoco e gli astri ci siano nodi: tutto il creato brucia, finché qualcuno ne intona il canto.

Ahmad Shāmlu (1925-2000)

Nel romanzo di Cormac McCarthy, La strada, ci sono un padre e un figlio: il figlio chiede, con serena ossessione, se sono loro, quei due, in un tempo oscuro, rivelazione del dio binario e bestiale, a portare il fuoco, se sono loro i buoni. “Devi portare il fuoco”, dice il padre al figlio, “Tu sei il migliore fra i buoni”. Il legame tra i due è più stretto di quello con la terra – un fuoco arde qui per costruire la città celeste.

Cormac McCarthy, uno scrittore che proviene dalle immagini potenti del profeta Ezechiele, marca un gemellaggio tra la parola fuoco e la parola bontà. Un giorno ho sentito Claudia Castellucci parlare “del grande saggio che appiccava incendi con le foglie secche nei boschi notturni del Piemonte, per contemplare il fuoco e il suo ritmo sempre nuovo”. Il fuoco è come un volto; si scrive nel fuoco perché ciò che è scritto incenerisca, e dunque rinasca, in altro. Nel romanzo di Cormac McCarthy i due protagonisti, senza nome, sono come un Abramo e un Isacco, nel pianeta setacciato dalla crudeltà, dalle iene apocalittiche: entrambi vivono nel lato oscuro del fuoco. Ed è il padre, morendo, a liberare il figlio della sua eredità, a renderlo sgargiante, a deliberare il desiderio ulteriore.

Quando una poesia è tradotta e viene a noi, dopo anni, dopo lotte, è un prodigio: perché dei versi, a volte, non restano che le braci e le ustioni. La poesia di Ahmad Shāmlu nasce nell’orda della Storia, quando tutto fu roulette e olocausto, caso e massacro. Il poeta è un monolite nel fuoco, allora, ammantato dalle fiamme blu – sorprende sempre come la poesia, ad Est, sia ancorata alla cronaca per dilatazione di assoluti. Ogni parola, cioè, acquisisce lo splendore di un libro redatto su pietra, di una corsa di sciacalli, dacché i millenni soggiacciono al mignolo. Chi nuota di notte, aggiogando il corpo al gelo, proprio come il rotolo di Giona e di Osea, sa che l’acqua può ferire come il fuoco, brucia – dalle luci, in fondo, che dileggiano l’oscurità, scaturisce l’eleganza di un distico, ma ciò che attrae, è indiscusso, è la più profonda oscurità, dove siamo indistinguibili, senza aggettivi: lì è il coltello, la formula dell’angelo, il richiamo, il fuoco.

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Inno di Abramo nel fuoco

Esecuzione di Mehdi Rezā‘i in piazza Tir di Citgar

Sulle sanguinose rovine dell’aurora

ecco un insolito uomo, che adorava la terra

irrorata di verdi frescure

e l’amore, destinato alle donne più belle –

questo ai suoi occhi

non era

un dopo da poco, da gettare

ai piedi della terra e delle pietre.

Che uomo! Che uomo!

diceva:

degno è quel cuore

trafitto da sette spade

d’amore

degna è quella gola

che pronuncia

i nomi più belli.

L’uomo leone-ferro-montagna,

da innamorato varcò

l’arena sanguinosa del fato

col suo tallone d’Achille –

quel petto invulnerabile

che in pena d’amore

conobbe il mistero della morte

e l’angoscia della solitudine.

*

Io ho rinunciato

a sprofondare negli abissi.

Ero una voce

una forma tra le forme –

e ho trovato un senso.

Io ero

e diventai,

non come il bocciolo che muta

in rosa

o la radice

in gemma

o il seme

in foresta –

retto e alto

come un profano,

un martire,

innanzi al quale si inginocchia il cielo.

*

Io non ero il misero servo

a testa china

e la via del mio idilliaco paradiso

non passava per le contrade

della servile umiliazione:

meritano un altro Dio degno di una creatura

che non si prostra soltanto

per un tozzo

di pane.

E sono stato creato

da un altro Dio.

*

Si pubblica la prefazione ad “Abramo nel fuoco” (e parte della poesia omonima), il libro che raccoglie le poesie di Ahmad Shāmlu (1925-2000), poeta iraniano la cui nitida potenza diventò un simbolo. Dal 1979, nascita della Repubblica islamica, “Ahmad Shāmlu non potrà più pubblicare in patria per quasi due decenni. Continuerà a scrivere e lavorare nonostante le dure persecuzioni inflitte dal governo centrale contro gli intellettuali, i poeti, gli scrittori liberali e dichiaratamente laici, assistendo incredulo al grande esodo della élite culturale iraniana verso l’Europa e gli Stati Uniti”, scrivono Faezeh Mardani e Francesco Occhetto curatori del volume. Il libro è edito da Ensemble (Roma, 2021).

*In copertina: Adi Holzer, Abrahams Opfer, 1997

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