27 Agosto 2020

Cosa ne è di Adelphi? Piccola preghiera di un lettore affezionato: tornate a essere ciò che eravate, pubblicate meno scienziati e giornalisti e più Cvetaeva

Recensire un libro prima che sia pubblicato e prima ancora che se ne sia sfogliata una pagina, non è indice di eleganza. Recensire un libro prima che si sia pubblicato e prima ancora che se ne sia sfogliata una pagina, se si conoscono l’autore e la casa editrice, è forse lungimiranza e monito. L’autore in questione è Michele Masneri, giornalista che scrive di “economia, case e cultura” sul Foglio, il Sole 24 ore e Rivista Studio. Quindi non uno scrittore, non un romanziere, non una penna da cui aspettarsi vergato il suo stesso sangue, sulle pagine. Il suo esordio in narrativa, Addio Monti edito da Minimum Fax, francamente prescindibile. Approda ora alla corte di Calasso (che sembra sempre meno presente nel tessere le trame della sua casa editrice). Steve Jobs non abita più qui è un titolo allettante come una goccia cinese, che sembrerebbe non centrare nulla con Adelphi, con i suoi splendidi color pastello e copertine. Sembrerebbe. Bisogna tornare ai mesi della quarantena, ai mesi in cui il virus era l’unico argomento possibile per quasi (quasi) tutti. I mesi in cui un titolo, Spillover di David Quammen (giornalista anche lui) uscito già nel 2014 e ignorato dai più, si è tramutato nel tomo più venduto dell’anno (e parlo di luglio). Uno dei più venduti da Adelphi da quando è sorta. Uno dei più letti da soprattutto da chi non legge.  La trama, l’inchiesta, le oltre 600 pagine (seicento pagine le leggo solo se sei Tolstoj, Joyce o Vasilij Grossman), dedicate a un pipistrello che diffonde un virus.  Noia abissale e avvilente. Con buona pace di Camus e Manzoni che, sulle epidemie, hanno scritto capolavori immortali e soprattutto più attuali di qualsiasi cosa scritta da marzo a oggi (ma anche dal 1800 in poi). Di Quammen Adelphi ha quindi, annusando la pecunia, pubblicato (e ripubblicato) altri titoli nel corso delle successive settimane. Ma forse non è questo il punto.  La domanda che ci si pone, nasce da un’involontaria  “giusta” osservazione di Nicola Lagioia, in un’imbarazzante (per Lagioia) intervista a Roberto Calasso qualche settimana or sono, a corollario di un’ancor più imbarazzante  edizione del Salone del Libro. Intervista al culmine della quale, dopo una sequela di domande alle quali, Calasso, ha cercato di rispondere celando il disagio, si è arrivati a concludere che “Adelphi si sta gettando alle spalle il Novecento”. Con la replica sin troppo educata e forse anche rassegnata da parte di Calasso: “Non so bene che cosa significherebbe “gettarsi alle spalle il Novecento” e non mi sembra fattibile, oltre che non augurabile. Non mi sembra che il secolo successivo abbia offerto finora qualcosa di meglio”.

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Ecco, appunto, cos’ha da offrire il secolo attuale? Di certo non i libri di Nicola Lagioia. Cos’ha da offrire ancora Adelphi? Gli autori pubblicati che sono le fondamenta di questa casa editrice continuano ad essere editi con parsimoniosa regolarità: Simenon (prima o poi si esauriranno i capolavori dello scrittore francese), Singer, Bernhard. Certo, tra le ultime uscite abbiamo accolto con gioia Rilke e Maugham. Ma, parlo da affezionato e feticista (anche compulsivo) accumulatore di tomi Adelphi, quel che manca o che sembra mancare è l’intuito per scoprire, scavare o ricercare nel nuovo così come quello per recuperare autori mai pubblicati e che sarebbe ora riemergessero dall’oblio, dal buio e dalle tombe. Se per il nuovo, la mancanza d’intuito, può essere perdonabile (la bellezza nel nuovo è merce rara e bisogna davvero esser miracolati), per gli autori dimenticati no. Sia sempre lode ad Adelphi per averci fatto leggere autori immensi quali Tommaso Landolfi, Giorgio Manganelli, Guido Morselli. Ma ora sembra mancare il fiuto, sembra mancare davvero qualcuno che si ponga di fianco a Calasso o che ne erediti la saggezza, la cultura, la spaventosa fame di letteratura e poesia che lacerano l’anima e le carni. Di Roberto Calasso, come è ovvio, non ne nascono molti. Ma attorno ad Adelphi, vi sono case editrici che del nuovo e del riscoperto stanno facendo tesoro. Penso ad Aragno o Iperborea. Alla sempre misteriosa, ineffabile e inafferrabile SE. Tutte case editrici che fanno di forma e sostanza un’entità unica e sublime. I grandi editori sono per lo più inavvicinabili e spesso illeggibili. Adelphi è sempre stata una casa editrice a parte, quella cui classe e sacralità son sempre parse inarrivabili. Qualcosa, pare, scricchiolare. Scriveva Calasso ne “l’impronta dell’editore” che “Un buon editore è quello che pubblica circa un decimo dei libri che vorrebbe e forse dovrebbe pubblicare”. Che ogni libro pubblicato genera un’ombra e tutte queste ombre “ci fanno cenni da luoghi remoti, da spazi che sono tuttora immensi, in attesa di essere di nuovo evocate, nella forma usuale di pagine da leggere”. Chissà se è rimasto ancora qualcosa di questa filosofia. Sarebbe davvero un peccato relegare quei libri color pastello nell’angolo di quelli superflui.

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Postilla: son passati alcuni giorni da questo scritto e, in attesa che venga dato alle stampe, mi accorgo, come sempre, di aver ragione. Se solo ne fossi più convinto, di aver sempre ragione. Spulcio tra le anteprime di Adelphi di mezza estate e cosa vedo? Una raccolta di racconti minori di Simenon, Annette e la signora bionda. Racconti minori e quindi relegati direttamente (e giustamente) in edizione “gli Adelphi” (i tascabili, per i poveri) e quindi la riedizione di un altro scienziato, il tanto osannato quanto prescindibile (per chi si ciba di libri) Oliver Sacks: Allucinazioni. Se voglio leggere riguardo la mente umana e i suoi deliri, leggo Dostoevskij, leggo Thomas Bernhard. Di certo non un neurologo. Io, umile e fallibile lettore, sarò sicuramente smentito, nei mesi e negli anni a venire. In Via S. Giovanni sul Muro, se mai verranno a sapere di queste mie righe, rideranno brindando con quello buono. Prima dell’annunciata pubblicazione di un inedito Guido Morselli, prima ancora di tutte le poesie di Marina Cvetaeva, tradotte da Serena Vitale e finalmente incorniciate dai color pastello. Se togliamo lo sporadico (per quanto colmo di beltà) Sonecka, son passati trentun’anni dal meraviglioso Deserti luoghi.  Sarebbe ora di porvi rimedio.

Cosimo Mongelli

*In copertina: Roberto Calasso, la fotografia è tratta da qui

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