26 Novembre 2018

Addio a Bernardo Bertolucci. Il ricordo di Richard Wurlitzer, l’artista sfrenato amato da Thomas Pynchon e da Sam Peckinpah, che ha scritto “Piccolo Buddha”

Devo credere ai segni, dunque.

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Qualche giorno fa intervisto Rudolph Wurlitzer. Wurlitzer è nato nel 1937, secondo l’agiografia “ha iniziato a scrivere a 17 anni, quando lavorava su una petroliera”, è stato l’aiutante di Robert Graves quando capitava a Maiorca, il suo primo libro, Nog, pubblicato nel 1968, è stato salutato da Thomas Pynchon come un capolavoro – “finalmente l’era del Romanzo delle Minchiate è finita, Wurlitzer è uno bravo, bravo davvero”.

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Rudolph Wurlitzer è inafferrabile, viaggia in moto sul filo del destino. In Italia l’editore Fandango/Playground ha pubblicato Zebulon, che in originale si chiama The Drop Edge of Yonder, è un western psichedelico, tratto da un soggetto che ha suggerito a Jim Jarmush la scrittura di Dead Man.

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Wurlitzer, vengo al punto scalfito dal caso, fa lo sceneggiatore per il cinema. “Mi sono dedicato al cinema per potermi permettere di continuare a scrivere romanzi sperimentali, eccentrici, lontanissimi dal mainstream, che all’epoca scrivevo e che ancora scrivo nella solitudine di Cape Breton, in Nova Scotia dove ho un capanno che si affaccia sulla solitudine dello Stretto di Northumberland”.

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I film più belli che ha firmato Wurlitzer sono due. Pat Garret & Billy the Kid di Sam Peckinpah. E Piccolo Buddha di Bernardo Bertolucci. Eccolo, il caso che ti brilla tra le mani come una manciata di quarzi. Oggi il Giornale pubblica l’intervista che ho fatto a Rudolph Wurlitzer – e Bernardo Bertolucci passa a miglior vita (sperando sia migliore di questa).

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Quanto a Bertolucci, ve la cavate smanettando in Internet, un red carpet di ‘coccodrilli’. Piuttosto, arriverei a Bernardo leggendo Attilio, perché al figlio si giunge attraversando l’opera del padre. Quanto ai film…

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Dissipazione. Direi che è questa la parola. Da Il conformista a Ultimo tango a Parigi a Il tè nel deserto. La vita è dissipare se stessi – meglio se in rapporti erotici casuali, sfidando il caos con un gemito.

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La dissipazione formalmente impeccabile, varcare il nulla con eleganza.

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Piccolo Buddha, in fondo, si conforma a questa idea. In questo caso, non è il caso di dissipare il corpo ma di costringere l’ego in un singulto, di dissolvere l’anima nel tutto, di disciogliere l’individuo nel mare del nulla. Il film, del 1993, con fatale Keanu Reeves, è stato scritto, appunto, da Rudolph Wurlitzer. “Mi sono sempre interessato a una grande varietà di letteratura taoista e buddista e alle sue relazioni con la forma e con il vuoto. A Bertolucci hanno fatto il mio nome, presentandomi come uno degli sceneggiatori in grado di scrivere Piccolo Buddha perché legato in più modi al tema e perché avevo vissuto in India e in Nepal”.

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Diverse fotografie, nei materiali che accerchiano la sceneggiatura, mostrano Wurlitzer con Bertolucci davanti a un monastero tibetano. “Abbiamo passato giorni magici tra Nepal e Tibet”, scrive un collaboratore di Bertolucci allo scrittore americano.

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“Siamo tenuti insieme da un destino sul quale non abbiamo alcun potere”, scrive Wurlitzer in Zebulon. “Anche da bambino, quando vivevo in un ambiente protetto, sorretto da una famiglia generosa, ero interessato a sabotare le forme accademiche, contemplando e accogliendo l’impermanenza e le illusioni di permanenza”, mi dice lo scrittore. L’arte è una sfida alle forme fisse – è una spaziata rivolta, una granata di buchi neri sulla stellata. Bernardo sia nella grazia. (d.b.)

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