05 Febbraio 2020

Aby Warburg tra i serpenti. “Senza il mito come risolviamo gli enigmi dell’esistenza?”

Per dimostrare la propria sanità, Aby Warburg, ospite di Ludwig Binswanger a Kreuzlingen, tenne una conferenza, al cospetto di medici e pazienti, parlando di serpi. Voleva, così, rientrare nelle spire della vita, nella spirale dei sorrisi: per vincere il male bisogna passare dal morso della serpe, cagliando il veleno in antidoto.

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“Quando, nella primavera del 1923, le sue condizioni migliorarono, Warburg espresse a Binswanger l’intenzione di tenere una conferenza davanti ai medici e ai pazienti della clinica, allo scopo di dimostrare che era in grado di riprendere l’attività scientifica e quindi anche – in un prossimo futuro – una vita normale” (Ulrich Raulff). La conferenza “sul rituale del serpente presso gli indiani Pueblo del Nordamerica” si tenne il 21 aprile del 1923. Sortì il suo effetto: Warburg si congedò dalla clinica, nel 1924 – morì cinque anni dopo. Naturalmente, una manciata di giorni dopo l’episodio, Aby Warburg scrisse al dottor Saxl di “non mostrare a nessuno, senza il mio espresso consenso, il manoscritto della mia conferenza”. Giudicava quel manoscritto, tratto dal suo viaggio negli Stati Uniti compiuto tra il 1895 e il 1896, l’“orrida convulsione di una rana decapitata”. Das Schlangenritual fu pubblico nel 1939; Il rituale del serpente – edito in Italia da Adelphi, dal 1998 – è un libro meraviglioso.

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Adempiendo la tecnica abbiamo abolito il mito, il simbolo si scinde in sabbia, l’anima è soppesata da uno stipendio. L’acqua calda in casa, il supermercato, il vizio per il superfluo ci hanno estratti dal morso del mondo – privi di dèi, deificati, viviamo per astratto: difendiamo la santità del bosco ma non sapremmo vincerlo, ci basta ammirarlo, con fioriera di fotografie, per mediazione turistica. Ci piace l’animale perché non vive a metà, per la sua feroce eleganza, ma non sappiamo più comunicare con lui, né incorporare in noi il suo carisma. Interpellando Frank Hamilton Cushing, antropologo e pioniere nello studio dei nativi americani – spesso, nelle fotografie, lo si vede vestito come un Pueblo, si diceva “l’uomo che divenne un indiano” – Warburg registra: “Un indiano una volta gli aveva chiesto perché mai l’uomo dovrebbe ritenersi superiore all’animale: ‘Guarda l’antilope, che è velocità pura e corre tanto più veloce dell’uomo; oppure l’orso, che è tutto forza. Gli uomini sanno solo fare in parte ciò che l’animale è, interamente’. Questo pensiero fantastico è – per quanto ciò possa sembrare strano – il primo stadio della nostra spiegazione scientifico-genetica del mondo. Come tutti i pagani della terra, anche gli indiani Pueblo entrano in relazione con il mondo animale – ed è ciò che chiamiamo totemismo – spinti da un timore reverenziale, poiché credono di riconoscere nelle varie specie i mitici antenati delle loro tribù”.

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Il serpente viene riverito tra i Pueblo per la sua intelligenza – ma anche perché è figura del fulmine. Il serpente, attraverso il rito, può facilitare la pioggia: la pioggia è siero che fertilizza la terra. Warburg avvicina la pratica dei Pueblo alle Menadi che danzano cingendo i serpenti al braccio, a Laocoonte, il profeta avvolto e sotterrato dai serpenti marini. Il serpente è figura moltiplicata nelle tradizioni: è ciò che uccide e quindi ciò che salva. “Asclepio, il dio della salute dell’antichità, ha come simbolo il serpente attorcigliato al suo bastone. I suoi tratti sono quelli che nella scultura classica caratterizzano il salvatore del mondo” (Warburg). Nella Bibbia il serpente provoca la caduta dell’uomo, ma il “serpente di bronzo” innalzato da Mosè, su indicazione di Dio, salva la vita, “chi lo guardava, restava in vita” (Nm 21, 9). Tra i poteri formidabili di “chi crederà e sarà battezzato e salvato” c’è quello di rovesciare la serpe in virtù, lo scandalo in norma, il veleno in vanto (“Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno”, Mc 16, 17-18). Parlare lingue nuove è affine al potere di prendere in mano i serpenti, di berne il veleno – la lingua della vipera è biforcuta, sembra sussurrare arcani. Il Crocefisso è come la serpe sbalzata da Mosé: egli muore, ma se lo guardi tu vivi. Il serpente è il simbolo ciclico del tempo – uroboro – e la latitudine vertebrale dell’uomo – la Kundalini. “Il serpente è dunque un simbolo universale inteso come risposta alla domanda: da dove vengono la furia degli elementi, la morte e il dolore?”.

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Questo è il centro della riflessione di Warburg: “La nostra età tecnologica non ha bisogno del serpente per spiegare e comprendere il fulmine. Il fulmine non terrorizza più l’abitante della città, né questi agogna più il benefico temporale come unica sorgente d’acqua. Egli ha il suo acquedotto, e il fulmine-serpente è deviato direttamente a terra dal parafulmine. La spiegazione fornita dalle scienze naturali fa piazza pulita della casualità mitologica. Sappiamo che il serpente è un animale destinato a soccombere, se l’uomo lo vuole. La sostituzione della casualità mitologica con quella tecnologica elimina lo sgomento provato dall’uomo primitivo. Ma non ci sentiamo di asserire senz’altro che liberando l’uomo dalla visione mitologica lo si possa davvero aiutare a dare risposte adeguate agli enigmi dell’esistenza”. La tecnologia libera dallo sgomento – cioè dallo stupore. Ogni forma è pulita, non purificata – al puro si accede per violenza – ma sostituita. Non sgozziamo il vitello, ma mangiamo la fettina di carne, così gradevole e rosea – e anche se decidessimo di non mangiare carne ciò non ci riconduce al giogo sacro in cui bue, giorno, costellazioni e adempimento spirituale sono uno. Per essere uno, un singolo ego grave di voglie, siamo scissi dall’Uno.

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In quello stesso circolo di anni, nel 1916, Hugo von Hofmannsthal, ragionando sulla natura dell’uomo occidentale, scrive: “L’antica lotta contro la natura sembrava essere stata portata a termine con successo. Sfruttata tecnicamente, la natura era sottomessa, non si stagliava come il demone, l’enigmatico maestro, l’immane nemico. L’ansia febbrile dello scambio, la rimozione funzionale delle distanze – il frastuono su London Bridge, gli hotel dalle Alpi a Benares – piroscafi transoceanici che, quale culmine di tutta la saggezza e la scienza della nostra epoca, solcano i mari colmi di pezzi di stoffa per una dama alla moda e il salotto, volumi inauditi di rigurgitanti informazioni trasmesse ogni dove, un miracolo da mille e una notte”. Sgrondata di spiritualità, l’Europa, secondo von Hofmannsthal, è una creazione inutile: “Per mezzo del relativismo, l’io è stato soggiogato dal tempo… Il nocivo assottigliamento e svilimento dell’io: tutto è sottomesso al denaro. L’influsso occulto del denaro. L’ambiguità delle azioni” (ora in: Hugo von Hofmannsthal, La letteratura come spazio spirituale della nazione, Aragno, 2019).

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Tutto ciò che abbiamo perso è chiaro, ignota è la direzione – questo non è un sacrificio, ma la dissipazione del sacro. Che Warburg abbia tenuto la propria lezione lampeggiante tra malati e medici ricorda che è sempre dove ribolle il male, la malattia, l’alieno, il mostro, l’avvio della salvezza. (d.b.)

*In copertina: Aby Warburg tra i Pueblo, nel 1896

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