10 Giugno 2020

Abitare al tempo del “fratello virus”. Da Le Corbusier ai Sassi di Matera: contro la felicità imposta per vezzo ideologico. Considerazioni di un architetto dell’esistere

Qualche tempo fa ho fatto una video chiamata con il professor Pino Parini. Mi ha accolto dicendomi: “il tuo autoritratto, la tua casa”, citando il mio libro La casa come ritratto. Professore di estetica, esperto di cibernetica, formatosi alla corte di Silvio Ceccato, e amico nel primo dopoguerra del giovane Fontana (il pittore degli squarci) dall’altezza dei suoi 95 anni di studi e ricerche continue (legge ancora una decina di libri contemporaneamente), nel monitor del computer mi è apparso come uno spirito, un’immagine sfuocata fatta di conoscenza e memoria.

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Un dialogo con lui è come un giro sulle montagne russe del pensiero umano, sulla ricerca della verità, della realtà, dalla scuola operativa al costruttivismo radicale passando per Kant, Nietzsche, il trascendente ed il trascendentale, la fisica quantistica, la relatività, pazzesco! Tutte verità vere, ma momentanee, smentite, smentibili, da altre verità che sopraggiungeranno, una eterna ricerca. Alla fine forse, sentenzia, l’arte (che è poesia) con la sua capacità di far coincidere l’istante con l’eterno attraverso la metafora è l’unica capace di descrivere la realtà. Ma anche questa è una verità momentanea, altrimenti si fa ontologia e, come ama dire lui “allora si già fregato”.

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È ovvio che per lui la casa è la mente, quel cervello che Freud divide in stanze per cercare di contenere ed ordinare il libero flusso della coscienza. La casa cervello ha una componente materiale che gli psichiatri ben conoscono, e una componente immateriale territorio della psicologia; c’è poi chi cerca l’invisibile, che alla casa mente preferisce la casa cuore: tu cuore di casa, anima mia, la casa dei poeti, uno tra tutti, Rainer Maria Rilke.

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Procedendo per analogie allora qual è la casa del virus? Facile! La casa del virus siamo noi, il nostro corpo. Se ci osserviamo attentamente, con la giusta scala di ingrandimento, notiamo che i batteri in primis, ed i virus ci abitano da sempre, sono spesso nostri alleati, a loro dobbiamo la nostra stessa vita, qualche volta la morte.

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Un passo indietro. Il primo atto concreto legato all’abitare è imparare ad abitare noi stessi, poi seguendo il consiglio di Parini dobbiamo imparare ad abitare il mondo cercando di scoprirlo in tutta la sua bellezza, dubitando di ogni nostra umana certezza. Abitare appunto, questa parola fondamentale. Per comprendere meglio che cos’è una casa, cos’è la nostra casa, dobbiamo interrogarci sul significato del verbo abitare.

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Per Heidegger, nel celebre saggio Costruire, abitare, pensare, il costruire è un abitare. Nello stesso saggio si sottolinea l’importanza del “prendersi cura delle cose” come costruzione di un rapporto con quello che ci circonda: io sono – io abito. Chi ogni giorno tiene in ordine la casa la rende un luogo accogliente per sé e per gli altri, capisce la fondamentale importanza di questa sorta di mandala, di costruzione quotidiana di un piccolo paradiso di serenità domestica, perché abitare è dove ci sentiamo sicuri, curati, amati, un luogo inospitale è inabitabile.

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La nostra casa è veramente nostra solo se la costruiamo ogni giorno. In questi tempi di forzata permanenza tra le mura domestiche, tanti di noi avranno osservato più nel dettaglio la propria casa ed avranno scoperto che ogni singolo elemento che la costituisce per quanto duraturo non è eterno, ha bisogna di cura, di manutenzione, di empatia.

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Anche per questo motivo una casa con finestre che si affacciano su un giardino, è più gradevole rispetto ad altre, proprio perché la natura muta ad ogni istante, ci rilassa il suo lento, inesorabile divenire. Prendiamo un albero, ogni giorno accade qualcosa, ora pare immobile, ora la sua chioma vibra per una leggera brezza, poi arriva un piccolo uccellino che abbozza un concerto con le foglie. Giorno dopo giorno le foglie si fanno sempre più grandi e verdi, passa l’estate la luce cambia, le foglie ingialliscono, si seccano e cadono a terra. Passano le persone e il tappeto di foglie scricchiola, prima di essere spazzato e raccolto o trasformarsi lentamente in nutrimento per le proprie radici.

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Ancora più vivibile è una casa con un giardino o con un terrazzo abitabile, magari con un giardino pensile. Avere uno spazio esterno vivibile non dovrebbe essere il privilegio di una villa o di un super attico, ma un elemento progettuale obbligatorio già nell’edilizia convenzionata, alias popolare, che spesso si rifà a criteri abitavi ideologici legati ad un vivere forzatamente sociale, che in realtà crea “luoghi di aggregazione” fantasma e quartieri dormitorio.

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L’unità d’abitazione di Le Corbusier fu un fallimento totale, come fu un fallimento totale anche se animato da nobili intenzioni la creazione di interi nuovi quartieri a Matera, nella città del piano da parte dell’UNRRA-Casas, capeggiata dall’allora presidente dell’istituto di urbanistica Adriano Olivetti, con la partecipazione di un pool di esperti e dai più noti urbanisti dell’epoca tra i quali Ludovico Quaroni, per “sgombrare” e ricollocare gli abitanti dei sassi di Matera, con tanto di legge dello stato. Fallimento perché si pretendeva di stravolgere le abitudini millenarie di una civiltà contadina abituata a un proprio modello urbanistico di aggregazione sociale pur nell’estrema povertà e mancanza d’igiene, “imponendo” un modello di felicità ideologica (tra l’altro vi furono lotte per stabilire quale ideologia coincidesse meglio con la felicità dei futuri abitanti contadini: comunista, socialista, cattolica…).

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Le Corbusier dopo aver professato “ideologicamente” il vivere sociale, disprezzando la casetta unifamiliare, disse alla fine della sua vita: “è la vita che ha sempre ragione e l’architettura ha torto”.

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Tornando ai sassi, queste grotte scavate anche dall’uomo nella madre terra con saggezza e rispetto millenari sono un esempio di simbiosi con l’ambiente circostante – la luce entra da una sola apertura ma riesce a penetrare in profondità grazie al pavimento inclinato; l’acqua (preziosissima) che percolava dalla roccia veniva raccolta senza sprechi in cisterne naturali; si viveva insieme agli animali, l’asino in particolare che con il suo calore assorbiva parte della troppa umidità rilasciata dal tufo in inverno. Questi sistemi di bioarchitettura spontanea, questi sistemi sociali ed urbanistici come il “Vicinato”, sono stati sufficientemente studiati prima di giudicarli insalubri, malsani? O si è preferito trasformare tutto questo sapere in cifre, norme, protocolli, certificazioni? La felicità in casa non è tale se non è di classe A, potremmo affermare con uno slogan oggi.

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Questa pandemia ci ha messo in rapporto diretto con il significato di igiene, facendoci considerare esseri viventi (i batteri ed i virus) ben più vecchi di noi come nemici da debellare alla stregua di tutto ciò che non è nel nostro controllo, come le erbacce ecc… Ma allora il progresso è vivere in ambienti asettici, sterilizzati, dove la nostra paura della morte è demonizzata dalla morte di tutto ciò che ci circonda-spaventa?

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Faccio un esempio. Qualche giorno fa sono stato ad ascoltare una bravissima amica pianista che incideva un disco in una sala di registrazione. Alla fine il proprietario della sala ci ha tenuto a decantare le virtù del suo pianoforte Yamaha a coda; tra le tante una mi ha colpito: la tastiera è stata spruzzata dal fabbricante giapponese con dei batteri colonizzatori che vivono assorbendo il sudore che le dita producono. Ho pensato subito che tra la tastiera ed i batteri si fosse creata un’alleanza e che quindi i batteri avessero come casa la tastiera, la abitassero. Anche noi dovremmo pensare al nostro corpo come alla casa per tanti ospiti, a quelli graditi (pensiamo alla flora batterica dello stomaco), a quelli graditi meno (entriamo in un argomento assai complesso legato all’idea di malattia e di cura, tema che non sfiorerò neppure).

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La simbiosi con l’ambiente non è solo fisica. Nei sassi, con il materiale di scavo della grotta, veniva eretta una facciata senza una funzione specifica, se non quella di simbolo. Spesso troviamo nelle case contadine, votate alla semplicità ed al funzionalismo estremo, nel muro di pietra della facciata, tra le piccole finestre, una nicchia con un’immagine sacra al suo interno. Il bisogno del sacro è una necessità anche per un popolo poverissimo (quello lucano), non contaminato dalla civiltà per millenni, per il quale Carlo Levi nel suo Cristo si è fermato ad Eboli arrivò a giustificare anche la morte, come lotta per la sopravvivenza, come fatto naturale e non moralmente giudicabile, dall’uomo civilizzato. Ecco, in questo senso quando uccidiamo un virus non dobbiamo sentirci in colpa!

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Ci siamo scordati che la morte è parte della vita, l’abbiamo uccisa dimenticandoci che San Francesco la chiamava “sorella morte”, che Lui parlava ad ogni forma di vita animale e vegetale consideralo/a suo pari. Una lezione per noi Cristiani, spesso ecologisti dell’ultima ora. Questa pandemia ha riportato in vita la morte! Come dovremmo chiamare allora il virus: mostro, nemico da uccidere, o fratello virus?

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Se un insetto ci fa schifo lo schiacciamo senza cercare di vedere in lui la bellezza, ma pensiamo al bruco che si fa farfalla, alle Epistole Entomologiche di Guido Gozzano ad esempio, o, parlando di Metamorfosi, a Kafka, chi è veramente il mostro? I mostri li crea la paura e la paura la crea l’ignoranza, la non conoscenza. Abitare il virus, significa non averne paura, rispettare un miracolo della natura molto più antico di noi, cercando di trovare un modo per conviverci attraverso un’alleanza sancita dalla scienza costituita con l’attuale livello di conoscenza, dal vaccino.

Fabio Mariani

(continua)

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