23 Novembre 2017

Vita da milionario a Miami. E il barbiere cubano fa a fette il regime di Fidel Castro

L’assolata South Beach è permanentemente invasa da turisti europei a caccia di sensazioni forti. Fra questi migliaia d’italiani, o in visita o ormai residenti, ben quarantamila insediati di recente. Un nuovo arrivato conosciuto al Caffé Milano è un milionario lombardo che ha lasciato l’Italia per stabilirsi a Miami “perché ci rendevano la vita impossibile”. Parliamo del più e del meno, e finisce con l’invitarmi a casa sua a una festa con cui, assieme alla moglie, inaugurerà la villa acquistata nella zona residenziale più esclusiva, a Key Biscayne. Lui è venuto “in avanscoperta, a sistemare parecchie cosette”. La moglie lo raggiungerà dall’Italia entro breve.

La mattina del giorno della festa vado dal barbiere a Westchester, a pochi chilometri a ovest, un quartiere in cui su trentamila abitanti il novanta per cento è di madrelingua spagnola. Ernesto, mi dicono, non c’è. “Allora torno domani,” ma Pablo mi fa cenno di sedermi. È un vecchio dall’aspetto mite con un sorriso a tutto denti. Dà per scontato che io parli spagnolo, che effettivamente ho appreso per necessità. A Miami vivono un milione d’esuli cubani, metà della popolazione, ai quali proprio non interessa parlare inglese. Mentre mi mette il grembiule dice, “Lavorare ancora alla mia età, ma guarda un po’…”. Aggiunge, “Fa niente, lavorare mi piace. È che a Cuba ero conducente d’autobus la mattina presto, portavo i bimbi a scuola, e poi barbiere fino alle due del pomeriggio”. “E dopo le due?”. “Andavo a un bar lungo il malecon (il lungomare dell’Avana), a giocare a domino con gli amici, ciarlare, bermi il cafecito, fumare puros. Non guadagnavo un granché, ma mi bastava. Qui in America è dura: devo pagare il mutuo della casa, le rate della macchina, le bollette, tutto è caro, e se non lavoro ogni giorno, non ce la faccio”.

M’ha coperto il volto con un cencio intriso d’acqua calda. “Allora,” da sotto il cencio, “se ci stava bene, perché l’ha lasciata, Cuba?”. “¡Ay, compadre!” e sospira mentre toglie il cencio e mi spennella la schiuma da barba sul viso. “Subito dopo la rivoluzione, tutti i professionisti hanno lasciato Cuba. Io no, perché mai? Los barbudos erano dalla mia parte, ne eravamo convinti. Poi, ogni mese, ce ne combinavano una. Non eravamo ricchi, tutt’altro. Ma la casetta che avevamo fuori città, i nostri nonni, genitori e i miei fratelli, ce la confiscarono, e ci assegnarono invece un appartamento di due stanze: eravamo in undici a casa! S’andava da un sopruso all’altro, ma guai a protestare. Allora nel 1965 feci le carte per uscire da Cuba, regolarmente”.

Comincia ora a radermi. Sono alla mercé d’un ottuagenario, ma il tocco è leggero, sapiente, una vita di pratica. Riprende: “Da allora cominciarono a chiamarmi gusano (verme), anche i vicini, non credo per convinzione, ma per paura. Le autorità mi dissero che avrei avuto le carte in un anno e mezzo, ma a una condizione”. “Quale?”. “Dovevo andare in un campo di concentramento e tagliare canna da zucchero gratis per diciotto mesi. Però non ci davano da mangiare. Allora nascondevamo una canna da zucchero tagliata a pezzi sotto la camicia. Certe guardie ci scoprivano e ci picchiavano a sangue. Altre chiudevano un occhio, ¡que dios los bendiga! Di notte in cella le masticavamo per ore, per ciucciarne lo zucchero. Di mattina eravamo morti di sonno, e ancora di fame, ma se non lavoravamo, altre botte. Certi non ce la facevano; svenivano, o per sfinitezza, o per le botte ulteriori che prendevano. Altri li pestarono così tanto che non li vidi mai più”. Continua a rasarmi con la leggerezza d’una farfalla. Riprende il racconto: “Finalmente passò l’anno e mezzo, mi lasciarono partire, e arrivai qui senza un centesimo in tasca. Poco dopo cominciarono a cadermi i denti. Nel giro di due anni li persi tutti”. “Ma come, se ha un bellissimo sorriso?”. “A forza di lavorare, me li sono fatti impiantare tutti, anno dopo anno. Ho finito sei anni fa, a settantasei anni. L’ultima dentista da cui andavo è una salvadoregna che lavora nel proprio garage. Non mi sono mai potuto permettere un dentista ufficiale. Ma sono contento, qui a Miami ho conosciuto mia moglie, siamo sposati da quarant’anni e rotti, una santa donna”. La rasatura è finita. Dopo avermi cosparso il viso di dopobarba, mi porge uno specchio: non un minimo graffio, la pelle liscissima, un lavoro impeccabile.

La sera mia moglie e io ci presentiamo alla villa del milionario al quale in Italia “rendevano la vita impossibile”. Ci sono altri invitati sulla soglia, in attesa d’entrare. Strano, pensiamo. Finalmente una cameriera risponde al campanello e ci dice — in spagnolo — che è spiacente ma la festa è stata rimandata. Il giorno dopo veniamo a sapere che non appena arrivata in Florida, la moglie bionda e bellina del milionario ha passato il primo giorno al bordo della piscina per la tintarella, anche lei evidentemente affetta da italianissimo “lucertolismo”. Solo che alla signora nessuno aveva detto che al tropico è l’ombra a essere preziosa e ricercata, non il sole. Verso le quattro di pomeriggio è stata trasportata da un’ambulanza in ospedale per disidratazione e ustioni di secondo grado diffuse su tutto il corpo.

Guido Mina di Sospiro

(Guido Mina di Sospiro ha pubblicato in Italia, di recente, per Ponte alle Grazie, La metafisica del ping pong, 2016, e il romanzo alchemico Sottovento e sopravvento, 2017)

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