Mi pare superato, penso che ci sia qualcosa di superiore, che questa sia archeologia. L’anno prossimo sono i 70 anni dalla pubblicazione di 1984, che è forse il romanzo più letto e più influente della seconda metà del Novecento. I meriti? La semplicità della parabola – l’uomo, solo, contro un sistema che lo sovrasta e vuole dominare la sua vita – e dell’accusa – lanciata contro i sistemi totalitari. C’è anche una evidenza biografica – George Orwell scrive parte del libro in isolamento, alle Ebridi, molto malato: morirà, in effetti, pochi mesi dopo l’uscita del suo libro più grande – che dota il libro di un livore, di un senso di tragedia, di cupa sostanza, indimenticabili.
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In previsione dell’anniversario, Emilia Romagna Teatro Fondazione ha prodotto uno spettacolo teatrale tratto da 1984, per la regia di Matthew Lenton. Ho visto lo spettacolo al ‘Bonci’ di Cesena, teatro magnifico. Lo spettacolo? Cupo e monotono, come il romanzo. Ma riuscito. Perché? Perché la struttura manichea è efficace: c’è un io contro tutti gli altri, delatori, c’è l’amore contro la schiavitù della riproduzione, c’è una specie di divinità, il Grande Fratello – cioè, il Grande Dittatore – che è un po’ Dio, un po’ Allah, un po’ Hitler e un poco Stalin. E in tutti i noi si nasconde l’iconoclasta e l’eretico.
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Certo, interpellato, il regista non ha detto delle cose molto intelligenti. “Non uso Facebook. E non voglio. Siate attivi, parlate con le persone nelle strade, dove potete fisicamente vederli. Smettetela con abitudini come sedere a un bar, concentrandovi unicamente sul cellulare, ma vivete”. Tutto bello. Non fosse che Facebook non è il Grande Fratello e l’abbandono preordinato dai social è una ideologia come un’altra. In Occidente i social sono un problema, obnubilano la nostra tormentata coscienza; in altri paesi – chessò, Cina, Arabia unita – il problema non si pone perché ai social si accede come vogliono loro. Da una parte i social sono il male, dall’altra cono miele.
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Ovviamente, il problema non è ‘parlare con la gente per strada’, ma che gente c’è per strada e che cosa ci diciamo per strada. Se per strada parliamo di minchiate, questa non è vita, ma minchioneria. Più che invocare la luce del sole e la vita nei boschi, stimolerei a leggere Dostoevskij, a studiare Dante, a capire il ritmo misterico di Emily Dickinson, per avere una esistenza coscienziosamente articolata. Questo è il punto. La letteratura rende infinite le possibilità di lettura di un fatto. Il resto, è propaganda.
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Di 1984 resiste la violenta percezione della solitudine. “Se è vero che sei un uomo, Winston, tu sei l’ultimo uomo. La tua specie si è estinta e noi ne siamo gli eredi. Non capisci che sei solo? Tu sei fuori dalla storia, tu non esisti”. Senza esitazione, ci sentiamo singoli singulti, istanti istintuali conficcati con levità d’ago sulla coriacea lingua della Storia. La Storia – che dovremmo essere noi – fa a meno di noi, non ci riguarda. Non riguarda noi plebaglia, intendo, e non riguarda i fatidici, facoltosi governanti: chi fa la Storia impone idee, cambia il nome al calendario, dà nomi alle città, orienta le stelle, costruisce monumenti che facciano vento all’immortalità – questi, oggi, si giocano la vita per una escort, per un isolotto con palazzine ai Caraibi, per una esistenza in prima fila elettoralmente sul nulla.
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Poi, la lingua. Orwell sa che ogni dittatura passa per una torsione del linguaggio. Il tiranno osteggia la poesia e disfa la grammatica perché l’anima dell’uomo è verbale. Nel Principi della neolingua lo scrittore ci informa in merito a due caratteristiche fondamentali della lingua imposta dal Grande Fratello. Primo. “Qualsiasi parola… poteva essere usata indifferentemente come verbo, nome, aggettivo o avverbio”. In sostanza, una parola è uguale all’altra, ogni parola è svuotata di senso. Secondo: “era pressoché impossibile, se non a un livello minimo, esprimersi in opinioni non ortodosse”. Il ‘politicamente corretto’ è la fase virale della dittatura burocratica. Ci siamo! Ecco perché un paese pieno di letteratura e di lettori attenti fa paura: la letteratura dilata i confini del nostro cuore, ci fa incontenibili.
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Detto che lo spettacolo è buono, la sua bontà sta in qualcos’altro, di subdolo. 1984 non racconta più il nostro tempo. Chi è il Grande Fratello? Donald Trump? Il Parlamento Europeo? Facebook? Internet? Ma… stiamo scherzando. Forse l’attuale imperatore di Cina è prossimo al potere di un Grande Fratello, forse un sultano che applica la pena di morte come noia comanda. Il problema dell’omologazione, infatti, è più sottile oggi di quel che postulava Orwell 70 anni fa.
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Intendetemi. Oggi ciascuno è una massa, fa massa critica (o a-critica) a sé. Il ‘sistema’ profila alla precisione la nostra identità e i nostri desideri, presenti e futuri. Ciascuno di noi è inderogabilmente Uno. Cioè, Nessuno. Magari fossimo Centomila… La massa – per quanto adorante – fa sempre paura, è mobile, volubile, leonina – l’uomo, da solo, nella solitudine del proprio schermo, è una capra. La vera tirannia, oggi, è la scomparsa dell’individuo – inteso come ciò che di noi è indivisibile, non separabile – in favore dell’individualismo. Pensiamo di essere ciò che compriamo e desideriamo, ma siamo soltanto quello che siamo. Chi siamo? Questa è la domanda per cui vale la pena vivere.
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Dov’è oggi il Grande Fratello? Beh, faremo fatica a dirlo ma è facile scoprirlo. Basta guardarsi allo specchio. Eccolo. (d.b.)