24 Settembre 2019

I 100 libri più belli del millennio. Come sempre gli inglesi la fanno fuori dal vaso (e gli italiani contano nulla)

Sull’arte dello stilare classifica. Il “Guardian” redige la classifica dei migliori libri del nuovo millennio. Il titolo è roboante, The 100 best books of the 21th century. Agli inglesi piacciono le classifiche – forse hanno il complesso di averlo piccino. Ma… le classifiche sono utili in ambito letterario? Certamente, c’è una componente ‘atletica’ nella scrittura, però: nei 100 metri il primo è indubitabilmente il primo, in letteratura le cose sono più complicate. Un libro che oggi ci sembra decisivo non lo sarà domani. Soprattutto, un grande libro è sempre ‘fuori classe’, fuori dalle classifiche. D’altronde, lo scrittore è uno&solo: un libro è troppo complesso – se è grande – per competere con altri.

Sull’idiozia della visione orizzontale. Stilare una classifica significa avere una visione orizzontale della letteratura, che non si erge oltre l’orizzonte degli eventi. Ma la letteratura è elusiva, ambigua, ambivalente, non si lascia ingabbiare dal podio. Se – faccio per dire – nel 1900 avessero redatto la classifica dei libri più importanti del XIX secolo non ci sarebbero stati i libri più importanti del XIX secolo, le poesie di Rimbaud, quelle di Emily Dickinson, quelle di Friedrich Hölderlin. Un secolo fa, tra i “best book” del XX secolo non ci sarebbe stato Franz Kafka. Il talento di uno scrittore di genio è anche quello di essere in controtempo: gli altri corrono, lui è in mongolfiera.

Secondo il “Guardian” questo è il libro più bello del XXI secolo. In Italia lo pubblica Fazi

Best Italian Books. Tra i 100 libri più importanti di questo primo ventennio del nuovo millennio gli italiani razzolano male. Ce ne sono soltanto due. Alla posizione numero 66 sbocciano le Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli (dida: “le intuizioni di Rovelli e le sue suggestive metafore rendono questo libro la migliore introduzione ad argomenti come la relatività, la meccanica quantistica, la cosmologia, l’entropia, le particelle elementari”). All’undicesimo posto (tra i titolari di una ipotetica squadra di calcio dei ‘migliori scrittori’ del XXI secolo) L’amica geniale di Elena Ferrante. Rovelli è uno scienziato molto noto nel mondo inglese, Elena Ferrante scriveva per il “Guardian” – editoriali non troppo intelligenti, invero, li leggete qui. Come sempre, gli inglesi peccano di anglocentrismo – in una classifica analoga, qualsiasi giornalista italico non oserebbe non inserire Emmanuel Carrére o Houellebecq, Philip Roth o Martin Amis. Consolatevi, campanilisti: Rovelli batte Bob Dylan, che giace nelle periferie (posizione 95 con Chronicles: Volume One; poco prima di JK Rowling, al 97mo posto con Harry Potter e il calice di fuoco).

And the Winner is… I tre libri più importanti del millennio, secondo il “Guardian”, sono stati scritti da tre donne. Medaglia d’oro per Hilary Mantel, con Wolf Hall, romanzo storico pubblicato dieci anni fa, centrato sulla vita di Thomas Cromwell, pubblicato in Italia, insieme ad altri libri della Mantel – pluripremiata al Booker Prize – da Fazi, complimenti a loro. Secondo posto per l’americana Marilynne Robinson, con Gilead (2008; in Italia i suoi libri li pubblica Einaudi); segue il Nobel per la letteratura Svjatlana Aleksievič con Tempo di seconda mano. Dietro il trio di talentuose fanciulle, due romanzi intensamente più belli dei tre che li precedono (parere mio): Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro e soprattutto Austerlitz di WG Sebald, che è senza dubbio, nel convegno dei 100 libri arruolati, il più grande.

Il tarlo nella classifica. Proprio Sebald – autore, per altro, che ha insegnato (ed è tragicamente morto) in UK: gli inglesi non scoprono nulla che non si sia radicato entro le candide scogliere di Dover – mette in crisi la struttura della classifica. Sebald è un autore la cui importanza per la letteratura europea è postuma. È uno scrittore di oggi, morto vent’anni fa. Allo stesso modo, credo che Mario Pomilio – mi riferisco a Il quinto evangelio e a Il Natale del 1833 – sia lo scrittore italiano più importante di questo millennio. Vedete, la letteratura si sviluppa per maree: a volte vedi solo la sabbia, le pietre che affiorano, hai narici aride di sale. Il mare c’è e non lo vedi. Altre volte, affoghi. In letteratura non conta l’oggi, la cronaca, perché la letteratura ha un atletismo diverso dalle classifiche sportive.

La poesia? Chissenefrega. Al posto numero 28 Rapture di Carol Ann Duffy, addirittura al 46 Human Chain di Seamus Heaney. La poesia è relegata nelle retrovie, nonostante il carisma linguistico che ha in carico. Gli inglesi sono servi del mondo dello spettacolo, della presa ‘sociale’ che ha un romanzo. Errore radicale. Il libro di Seamus Heaney è tra i grandi del millennio, il più pregno di destino.

I maestri? In cantina. Philip Roth al posto numero 12 (The Plot Against America), Jonathan Franzen al numero 16 (Le correzioni), Cormac McCarthy al 17 (con La strada), Alice Munro al 27 (Nemico, amico, amante…), Martin Amis al 36 (Experience), Joan Didion al 40 (L’anno del pensiero magico), Margaret Atwood al 50 (L’ultimo degli uomini), Michael Chabon al 57 (Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay), John le Carré al 68 (Il giardiniere tenace). Libri che meritavano i primissimi posti, scalciati altrove. In questo, però, gli inglesi hanno ragione: quasi tutti sono autori esplodi nel millennio precedente, che in precedenza hanno scritto i propri capolavori.

La normalizzazione del gesto letterario. In una cosa però hanno torto. Normalizzano. I romanzi che svettano in classifica sono certamente importanti. Non sono dei capolavori. E a parte il romanzo di Sebald (intruppato per pia decenza, perché è morto), non portano fragranti innovazioni linguistiche (vi cito gli altri, dal posto 6 in giù: Philip Pullman, Ta-Nehisi Coates, Ali Smith, David Mitchell). Insomma, è una classifica letterariamente corretta, che premia la trama – depurata di sperimentalismi, buona alla traduzione in fiction – rispetto all’atto estetico. Ancor più: si premia l’assenza di estremismi. Così, per dire, manca un qualsiasi romanzo di Michel Houellebecq – autore imprescindibile, anche se io mi premuro di leggere altro – non si tiene conto della tensione di autori autenticamente europei (maestri come Ágota Kristóf, Milan Kundera, Cees Nooteboom, Christoph Ransmayr, Durs Grünbein, Mircea Cartarescu, per dire solo alcuni), si ignora la letteratura ispanofona e di quella in lingua inglese si dimenticano certi titani (J.M. Coetzee, ad esempio, e se si ritiene che David Foster Wallace abbia scritto il meglio nel millennio scorso è impossibile non considerare William T. Vollmann il cui ciclo, “Seven Dreams”, è tra le imprese romanzesche più eccitanti degli ultimi lustri).

E noi? Bibbidi-bobbidi-boo. E se toccasse a noi stilare la classifica dei migliori libri del nuovo millennio? Non mi guardate. Per me la letteratura – ripeto – è una marea. Per me Il fucile da caccia di Inoue Yasushi è un libro fondamentale: è stato pubblicato in Giappone nei tardi Quaranta, è tradotto da Adelphi nel 2004. È quindi, in Italia, un libro del nuovo millennio: e tra i più belli. Quanto al resto, resto fermo all’idea che la poesia italiana, quando si esprime in forme autentiche, sia superiore al romanzo: Mattoni per l’altare del fuoco (2002) di Alessandro Ceni, L’invasione dei granchi giganti (2010) di Federico Italiano, Il fianco dove appoggiare un figlio (2012) di Francesca Serragnoli sono libri ben più vasti e liberatori di tanti altri ornati di allori. D’altronde, qui, la letteratura dura gira per i rigagnoli, è sempre sopra le righe, o tra le righe, invisibile ai più. Nell’ambito del romanzo, Luca Doninelli con Le cose semplici (2015) ha dato vita a un romanzo-corpo, a una narrazione stratificata, di luminosa potenza. Poi io – io – ritengo fondamentale Ultimo parallelo (2007) di Filippo Tuena, mi sembra un evento autentico la raccolta Homo Sacer a sancire il genio di Giorgio Agamben, ma se è per questo è un evento eguale la traduzione del Genji Monogatari a cura di Maria Teresa Orsi per Einaudi (2012) e l’edizione di Tutte le liriche di Friedrich Hölderlin (2001) per la cura di Luigi Reitani, ma anche le Poesie di Heaney (2016) curate da Marco Sonzogni. Quando nel 2003 Adelphi pubblicò Omeros di Derek Walcott mi sembrò che qualcuno avesse finalmente cambiato aria nella stantia stamberga della lirica italiana; e che dire allora dell’Opera poetica di Yves Bonnefoy (2010) a cura di Fabio Scotto? Sono molto legato al romanzo di Andrea Temporelli, Tutte le voci di questo aldilà (2015; un mistero che non sia pubblicato da grandi editori), all’opera caustica e carismatica di Gian Ruggero Manzoni, a certi libri enigmatici di Leonardo Bonetti. Così è troppo facile? Credo che se le classifiche vengono brandite per promuovere un paese e una idea letteraria consuetudinaria servano a poco. Il noto ha il suo giusto premio dal mercato. A noi occorre mettere chiodi luminosi sul corpo della notte, ascoltare i bisbigli, sentire il latrato della letteratura che è lì, tra le paludi, dove gli schizzinosi non si aggirano. (d.b.)

*In copertina: Philip Roth. Ride in faccia alle classifiche

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