03 Agosto 2018

10 anni fa è morto Aleksandr Solzenicyn. Anche i tiggì lo citano come il prezzemolo, ma che senso ha, oggi, leggere “Arcipelago Gulag”? (Comunque, leggete anche Varlam Salamov e Iosif Brodskij, fa bene)

Aleksandr Solzenicyn è morto 10 anni fa, il 3 agosto; è nato 100 anni fa, l’11 settembre; ha ottenuto il Premio Nobel per la letteratura nel 1970, ma lo andrà a ritirare quattro anni dopo, dopo aver subito l’esilio dall’Unione Sovietica. Nel suo discorso di accettazione, tra l’altro, Solzenicyn scrive: “L’arte, incontaminata dai nostri sforzi, non si allontana dalla sua vera natura, ma in ogni occasione e ogni volta che appare, ci mostra una parte della sua luce segreta. Riusciremo mai a cogliere l’interezza di questa luce? Chi può osare dire di aver definito l’arte in tutte le sue innumerevoli sfaccettature?… Attraverso l’arte siamo visitati a volte – brevemente, con fragilità – da rivelazioni che non possono darsi con il pensiero razionale”.

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arcipelago1Rivelazione meridiana. Tiggì di Rai 2. Ricordano i dieci anni dalla morte di Solzenicyn. Non è neanche l’ultima notizia, quella di scarto, che nessuno ascolta, con il boccone in gola. Come mai?, mi dico, di solito non ricordano lo scrittore neanche quando muore, figuriamoci lo scampanio dell’anniversario. Nel servizio campeggia una sola immagine: Solzenicyn con un barbone tolstojano che dialoga amabilmente con Vladimir Putin. Al di là delle simpatie, la comunicazione mi pare semplice e aberrante: lo scrittore esiste se dialoga con l’emblema del potere (poco importa che i valori siano ribaltati, che sia Putin a inchinarsi al cospetto di Solzenicyn), lo scrittore è servo del potere. Dieci anni dopo, che paradosso: Solzenicyn, infatti, semmai, è l’icona della lotta contro il potere. Quello sovietico comunista.

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In previsione del fausto anniversario, Mondadori ha spedito in libreria, dallo scorso anno, una versione di Arcipelago Gulag, il capolavoro di Solzenicyn, in unico volume, rispetto ai tre della precedente edizione. Quasi 1500 pagine, fittamente scritte: e chi se lo legge? Il genio di Solzenicyn – che avrebbe voluto essere il Tolstoj del sistema carcerario sovietico, il grande aedo degli inferi russi – è aver inventato un ‘genere’. Arcipelago Gulag è un agghiacciante, informato, cinico, radicale reportage. Ma ha il passo appassionato del romanzo. La letteratura ‘di denuncia’ – per sua natura, storica e contingente, degradabile e degradante – diventa, qui, epica del dolore e della compassione. Sarà imitatissimo.

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arcipelago 2Di Solzenicyn è stato fatto un totem – forse con l’intento di squalificare lo scrittore, di rabbonire le sue accuse. Solzenicyn, di norma, abbatteva i totem: è spietato, ad esempio, contro Maksim Gor’kij, il grande scrittore, “il maggiore scrittore russo”, l’ideatore del ‘realismo socialista’. “Fu il 20 giugno 1929. Il celebre scrittore scese a terra nella baia della Prosperità… lui sì che parlerà chiaro! lui sì che darà loro una lezione! lui sì che ci difenderà! Gor’kij era atteso quasi come un’amnistia generale”. Gor’kij, invece, impaniato nel potere. “attraversò a grandi falcate i corridoi di alcuni convitti. Tutte le porte delle stanze erano spalancate, ma egli non vi entrò quasi mai”. Terribile lo sketch che racconta Solzenicyn poco dopo. “Arrivarono nella colonia infantile. Com’è tutto civile! Ognuno su una branda separata, con il materasso. Tutti sono timidi, tutti sono contenti. D’un tratto un ragazzo di quattordici anni dice, ‘Senti, Gor’kij. Tutto quello che vedi non è vero. Vuoi sentire la verità? Te la devo raccontare?’ Sì, annuisce lo scrittore. Sì, vuol conoscere la verità. (Ah, ragazzino, perché guasti il benessere appena acquisito dal patriarca della letteratura… Un palazzo a Mosca, una tenuta nei dintorni della capitale…)… Gor’kij esce dalla baracca sciogliendosi in lacrime… Il 22 giugno, dopo la conversazione con il ragazzo, Gor’kij lasciò la seguente annotazione nel ‘Libro dei visitatori’, appositamente cucito per l’occasione: ‘Non sono in grado di esprimere in poche parole le mie impressioni. Non vorrei, e sarebbe vergognoso, ricadere in stereotipati elogi della stupefacente energia di uomini, i quali, essendo attenti e indefessi guardiani della rivoluzione sanno essere, insieme, creatori straordinariamente arditi della cultura’. Il 23 Gor’kij partì. Non appena il suo piroscafo salpò il ragazzino fu fucilato”. Solzenicyn mette alla corda la protervia e l’impudica ipocrisia di Gor’kij, emblema di una intera classe di letterati sovietici, servi del potere costituito. Solzenicyn non c’era, quel giorno del 1929, aveva 11 anni, viveva l’esproprio delle proprietà familiari da parte dei ‘rivoluzionari’ rossi. La forza patetica del suo linguaggio, però, ci fa vivere quel fatto in ‘presa diretta’.

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Gli scrittori russi sono eccentrici. Vladimir Nabokov fuggì dalla Russia poco dopo la Rivoluzione: riteneva che la letteratura fosse un affare ‘formale’, senza alcuna implicazione etica. Iosif Brodskij, il poeta premiato con il Nobel per la letteratura nel 1987, pur essendo ben più giovane di Solzenicyn – nasce nel 1940 – fugge dalla Mamma Russia, dopo essere stato processato e mandato ai lavori forzati, prima di lui, due anni prima, nel 1972. A Brodskij non piacevano i libri di Solzenicyn. Gli rimproverava la “palese incapacità di scorgere, dietro il più crudele sistema politico di tutta la storia del cristianesimo, il fallimento umano, se non il fallimento della stessa dottrina religiosa (e questo valga per il severo spirito dell’ortodossia!). Data la sproporzione dell’incubo storico che Solzenicyn descrive, questa incapacità è di per sé talmente vistosa da far sospettare un’interdipendenza tra il conservatorismo estetico e la resistenza alla nozione di un’intrinseca, radicale malvagità dell’uomo”. Il poeta, come sempre, va all’origine prima, al cuore delle cose.

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arcipelago 3Solzenicyn, pur riconoscendo la preminenza, la prelibatezza dell’esperienza vissuta da Varlam Salamov (“L’esperienza di Salamov nei lager è stata più amara e più lunga della mia… a lui e non a me è stato dato in sorte di toccare il fondo di abbrutimento e disperazione verso cui ci spingeva tutta l’esistenza quotidiana nei lager”), pur chiamandolo, in un istante, “fratello”, gli rimproverò di aver ‘abiurato’ pubblicamente la propria opera (“Il 23 febbraio 1972 ha ritrattato sulla Literaturnaja Gazeta – perché, se tutte le minacce erano ormai passate? – ‘La problematica dei Racconti di Kolyma è ormai da tempo superata dalla vita’… e così abbiamo tutti capito che Salamov era morto”). Arcipelago Gulag contiene un discreto numero di ‘frecciate’ a Salamov: come mai? Cosa dà diritto a un uomo come Solzenicyn di giudicare la vita e le scelte di Salamov? Esiste forse una classifica nel dolore? Probabilmente Solzenicyn riconosce nei Racconti di Kolyma un’opera formalmente – e perciò, eticamente – più alta di Arcipelago Gulag.

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Quando Solzenicyn pubblica Una giornata di Ivan Denisovic, nel 1962, il libro con cui, per la prima volta, viene raccontata la vita nei Gulag, Varlam Salamov piglia carta e penna. “Cos’è quel gatto che secondo lei gira per l’infermeria? Perché non è stato ancora sgozzato e mangiato?”. A Boris Pasternak – il suo idolo poetico, ma a cui rimprovererà la modestia del Dottor Zivago – Salamov scrive: “L’essenziale è nella corruzione della mente e del cuore, quando giorno dopo giorno l’immensa maggioranza delle persone capisce sempre più chiaramente che in fin dei conti si può vivere senza carne, senza zucchero, senza abiti, senza scarpe, ma anche senza amore né senso del dovere. Tutto viene a nudo, e l’ultimo denudamento è tremendo… la nostra epoca è riuscita a far dimenticare all’uomo che è un essere umano”. Imperdonabili, gli scrittori russi non perdonano nulla se stessi e agli altri. Ricoverato dal 1979 in una casa di riposo, gravemente turbato, Salamov vi morì nel 1982.

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Sia Solzenicyn che Salamov si rivolgono a Nadezda Mandel’stam, la moglie del poeta Osip Mandel’stam, arrestato e morto, nel 1938, in un campo di concentramento russo. Nadezda Mandel’stam, che diventa il simbolo della resistenza della poesia al morso sovietico, ha scritto il devastante libro di memorie, L’epoca e i lupi, che secondo Iosif Brodskij è la testimonianza letteraria più alta dell’era sovietica, in Italia, ora, dopo le edizioni Mondadori (1971), Serra e Riva (1990) e della Fondazione Liberal (2006), introvabile (perché?). Solzenicyn si rivolge testualmente a Nadezda (citando passi del suo libro), mentre Salamov dedica a Nadezda il racconto Sentenza. “Non era l’indifferenza, ma la rabbia l’ultimo sentimento umano, quello più vicino alle ossa… ero al di fuori della verità, al di fuori della menzogna… Ah, com’è lontano l’amore dall’invidia, dalla paura, dalla rabbia. Com’è poco necessario all’uomo! L’amore viene quando tutti gli altri sentimenti umani sono già tornati. L’amore arriva per ultimo, torna per ultimo, se davvero ritorna”. Se Solzenicyn fa la storia, ha la marcia epica, Salamov raffina la nostra anima, dà un nuovo senso ad essa e ai suoi vizi. Solzenicyn va sulla biga trainata da frotte di sauri; Salamov cavalca il giaguaro.

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arcipelago 4Dopo l’esilio comminato a Solzenicyn, il 20 febbraio del 1974, su l’Unità, il futuro Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, all’epoca “membro della Direzione del PCI e responsabile della Commissione culturale”, cerca di convincere i ‘compagni’ che la punizione è buona e giusta, che in fondo lo scrittore se l’è cercata. “L’altra verità da ristabilire è quella relativa al punto cui era giunto il rapporto tra Solgenitsyn e Io Stato sovietico. Nessuno può negare che lo scrittore (come d’altronde si ammetteva tra le righe degli stessi articoli scritti nei giorni scorsi per esaltarlo) avesse finito per assumere un atteggiamento di «sfida» allo Stato sovietico e alle sue leggi, di totale contrapposizione, anche nella pratica, alle istituzioni, che egli non solo criticava ma si rifiutava ormai di riconoscere in qualsiasi modo. Non c’è dubbio che questo atteggiamento — al di là delle stesse tesi ideologiche e dei già aberranti giudizi politici — di Solgenitsyn, avesse suscitato larghissima riprovazione nell’URSS”. Tendenzialmente, uno scrittore deve sempre avere un “atteggiamento di ‘sfida’” verso l’ordine costituito: ora lo scrittore vive l’esilio dell’indifferenza.

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“Ecco come scrivevo. In inverno nella stanza riscaldata, in primavera e in estate sulle impalcature, mentre lavoravamo: nell’intervallo tra due secchi di malta appoggiavo il pezzetto di carta sui mattoni e con un mozzicone di matita (nascondendomi dai vicini) annotavo i righi che mi erano venuti in mente mentre posavo la malta del secchio precedente. Vivevo come in sogno, seduto alla mensa davanti alla sacra sbobba non ne avvertivo il sapore, non udivo quelli che mi stavano intorno, non facevo che andare e venire tra i miei versi, adattandoli come mattoni di un muro… io passavo tutto il mio tempo in una lunga e lontana evasione, ma i guardiani non potevano scoprirla facendo il conto delle teste”. Così Solzenicyn descrive l’ossessione della scrittura, una ossessione che perde e che salva. Raccontando la storia, Solzenicyn vive “come in sogno”. Ogni gesto di scrittura, se grande, accade dal carcere, scavando il tempo dalle pareti, come i carcerati, gratificando le unghie, trovando anfratti nelle gambe delle sedie.

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Dieci anni dopo Solzenicyn è una icona buona per le conferenze e i servizi del tiggì: d’altronde, chi ha oggi il coraggio di dire che il Gulag sono stati una azienda sovietica efficiente e che la sopraffazione è un atto virtuoso? Così, leggiamo Arcipelago Gulag come la testimonianza di un tempo che fu. Ma non è oggi il Gulag, in una forma più delicata, deliziosa, sagace, in questo sistema di spazientito servaggio, di frustrazione patente, di frementi ferie? (d.b.)

 

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